
Mi son dimenticato qualcosa? Ah, si:
WE HAVE TO GO BACK

Come si può affrontare con distacco un film di Terrence Malik? Non si può. Come si può affrontare con obiettività un film che ti emozione in ogni inquadratura? Non si può, ma bisogna provarci. Se non altro per reprimere la voglia irresistibile di gridare al capolavoro, perché si cerca per istinto di conservare quella parola, di non abusarne, di centellinarla quando serve. Eppure per Malik la si potrebbe usare almeno quattro volte, una per ogni suo film. Quattro film nel corso di più di trent'anni. Può sembrare poco ma non esiste nessuna regola che riconosca un regista migliore di un altro solo per il numero di film che si è girato. I Giorni Del Cielo (Days of Heaven), datato 1978, è il suo secondo lungometraggio. Il terzo, La Sottile Linea Rossa, uscirà solo vent'anni più tardi. La storia prende piede in un America ai primi del '900. Bill (un giovanissimo Richard Gere) lavora in fabbrica e dopo aver aggredito un suo superiore decide di scappare da Chicago per cercare nuove opportunità e si imbarca sul primo treno con la compagna Abby e la piccola Linda. Giunti sulla proprietà di un ricco signorotto si fanno assumere come manovali e si fermano li per tutto il periodo della mietitura del grano. Un giorno per puro caso, Bill scopre che il ricco proprietario terriero non solo è innamorato di Abby ma è anche affetto da una malattia che lo sta uccidendo. Bill spinge così la ragazza ad accettare la proposta di matrimonio per poter mettere le mani sui soldi del suo padrone. Quando però Abby si innamora del suo nuovo marito, Bill comincia a realizzare il terribile errore che ha commesso. Il film inizia con delle immagini soffocanti, la città e le fabbriche, per poi aprirsi all'ampio respiro delle campagne, distese di campi di grano che si estendono a perdita d'occhio. Una voice-over racconta l'evolversi degli eventi, elemento tipico del cinema di Malik che lascia ai pensieri dei protagonisti il compito di accompagnare gli spettatori alla visione. In questo caso è la voce di Linda a prenderci per mano. Attraverso i suoi occhi, attraverso le sue parole ricche dell' innocenza tipica della sua età, vediamo la sua vita vagabonda trasformarsi da paradiso in inferno: l'improvvisa fortuna tramutatasi in tragedia è per lei opera del diavolo e non diretto risultato delle debolezze tipiche degli uomini. Musicate dall' immenso Ennio Morricone, le immagini di Malik riempono tutti i vuoti e raccontano a modo loro la storia: dall' imponenza di un temporale in lontananza, alle sagome dei lavoratori che si stagliano sul cielo al tramonto. Dalle "onde" di un campo di grano mosso dal vento, al fuoco maestoso contro il quale l'uomo non può che arrendersi. E così ci arrendiamo anche noi davanti a un regista che si ama o si odia ma di certo non lascia indifferenti.
Portare un romanzo su grande schermo si sa, è un' operazione rischiosa. Se poi il romanzo in questione è Io Sono Leggenda di Richard Matheson che conta già due adattamenti cinematografici, il rischio diventa quasi una scommessa persa in partenza. Eppure, contrariamente a qualsiasi pessima aspettativa che i trailer avevano fatto nascere in me, il film di Francis Lawrence si salva dal baratro su cui si affacciano molti blockbuster. Si salva, non del tutto ma in buona parte. Se dovessi mettermi a fare un parallelo diretto punto per punto, tra romanzo e film, quest'ultimo ne uscirebbe inevitabilmente sconfitto. Cercherò pertanto di non essere esageratamente fiscale e di considerare le modifiche (o adattamenti) delle..."licenze poetiche"?. Ma si, perché no. La storia vede l'umanità cancellata da un virus mutato. Quella che doveva essere una miracolosa cura per il cancro, ottenuta modificando geneticamente il virus del morbillo, diventa la piaga che trasforma tutta l'umanità in glabri vampiri succhiasangue. L'unico sopravvissuto (o non contagiato) è Robert Neville che nella più totale solitudine lotta incessantemente per trovare una cura. Il film ha un grande pregio, soprattuto nella prima parte, e cioè quello di creare quella atmosfera di solitudine e abbandono che trasudano dalle pagine del romanzo di Matheson: Robert Neville (interpretato da un Will Smith che sfoggia un fisico scolpito ma asciutto, perfetto per il personaggio) è a tutti gli effetti l'ultimo uomo sulla terra (o quasi) e a reinventato la sua vita in quel senso, pur nutrendo la speranza che qualcun'altro oltre a lui sia ancora vivo. Le sue giornate tutte uguali sono organizzate in modo metodico, cronometrato. Il cane Sam è tutto ciò che gli è rimasto della famiglia, i manichini occupano il vuoto lasciato dalle persone. Anche alcune scelte, puramente sceniche, sono comunque molto azzeccate come ad esempio la natura che riprende il suo posto (l' erba alta a Time Square) e la "giungla" urbana torna ad essere semplicemente giungla (animali selvatici che corrono tra le macchine abbandonate). Purtroppo però il film è anche pieno di quegli elementi tipici da blockbuster hollywoodiano che un po' fanno storcere il naso: innanzi tutto l'ambientazione "new yorkese" tipica dei disaster movie. Poi ci sarebbe anche la tamarrissima macchina da corsa che sfreccia tra le strade deserte. Ma quello che veramente disturba e non si riesce a digerire bene, è la piega che prende il film nella sua seconda metà. Le scelte fatte in fase di sceneggiatura mettono il testo originale da una parte e riscrivono la storia in maniera molto discutibile conducendola ad un finale troppo consolatorio (arrivando addirittura a modificare il significato stesso della frase "Io sono leggenda"). Questo non capisco se dipenda da una mancanza di coraggio o da qualcuno a Hollywood convinto che la gente esca rassicurata dalle sale con un bel "happy ending" anche se forzato. Insomma, film godibile riuscito a metà. Curioso notare però, la poca cura nel realizzare le creature digitali e nel farle interagire con il "reale". Da un film di questa portata non te lo aspetti.