Tuesday, June 01, 2010
"You have to keep carrying the fire."
The Road di John Hillcoat ci riporta a bomba sull' annosa questione degli adattamenti cinematografici dei libri, specie se importanti come quello di Cormac McCarty da cui il film è tratto. Sarebbe cosa corretta considerare sempre le due cose come "creature" distinte e quindi giudicare la pellicola come frutto della libera interpretazione di registi e sceneggiatori. Eppure, la maniera in cui le pagine, le parole, le "immagini" di McCarty ti si incollano addosso, rendono questa distinzione difficile se non proprio impossibile. Alla luce del risultato finale ottenuto con il film, appare evidente che lo stesso Hillcoat e Joe Penhall (che ha curato l' adattamento e la sceneggiatura) si siano trovati di fronte alla grandezza del libro dello scrittore americano e abbiano deciso di rimanerne il più possibile fedeli. La struttura narrativa ad esempio, ricalca, spesso con dovizia di particolari (ma evitando di proposito alcuni episodi forse eccessivamente forti) il viaggio intrapreso dall' uomo e da suo figlio nella strada che conduce a sud in un mondo distrutto, riproponendone i momenti e gli incontri fondamentali. Encomiabile anche il lavoro svolto nel ricreare le atmosfere di un Paese sconvolto, l' opprimente sensazione di morte che, ineluttabile, aspetta sotto un cielo perennemente plumbeo, nelle città deserte, nelle fattorie abitate solo da cadaveri in decomposizione, nel silenzio angosciante interrotto unicamente dal rumore della pioggia o dagli alberi morti che si frantumano al suolo. In questo scenario un padre ed un figlio cercano disperatamente di sopravvivere portando con loro quel che resta della civiltà e dell' uomo che, rimasto senza regole, è tornato allo stato di bestia selvaggia. E fin qui possiamo dire che vada tutto bene. I problemi nascono quando ci si rende conto che rimanere fedeli al testo originale non basta e bisogna essere in grado di sapere quando e come prenderne le giuste distanze: se da un lato possiamo perdonare la voce fuori campo di cui si fa un uso eccessivo più che funzionale, risulta assai più difficile mandare giù la necessità di esplicitare (e in molti casi quindi banalizzare) dei concetti che McCarty ha giustamente lasciato sospesi, tra le righe, interpretabili in base alla sensibilità del lettore. Una scelta che, a quanto pare, al cinema non funziona per un assurda convinzione che al pubblico è meglio servire qualsiasi metafora o significato già bello masticato e digerito. Un neo difficile da ignorare per un film che poteva sicuramente puntare molto in alto anche grazie alle belle interpretazioni di Viggo Mortensen e del giovane Kodi Smith-McPhee.
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