Friday, October 31, 2008

Una favola con i maiali ma non è "I Tre Porcellini"

I Wilhern sono un' aristocratica e ricca famiglia sulla quale però, ormai da diverse generazioni, grava una maledizione a causa di un bis-nonno con qualche problema a tener il pisello nei pantaloni. Dopo aver messo in cinta una domestica infatti, si rifiuta di sposarla e questa si suicida buttandosi in un dirupo. La madre, conosciuta come la strega del villaggio, accecata dal dolore per la perdita della figlia, lancia una maledizione sui Wilhern: la prima figlia femmina che nascerà nella famiglia avrà le sembianze di un maiale e solo quando qualcuno del suo stesso sangue la prenderà in sposa l'incantesimo verrà spezzato. Il destino vuole che nessuna figlia di sesso femminile nasca nelle generazioni successive almeno fino ai giorni nostri quando Franklin e Jessica Wilhern danno alla luce Penelope, una bella bambina con un altrettanto bel grugno da maiale al posto del naso. Dopo averne finto la morte per evitare il "cannibalismo" dei giornalisti, Jessica ha fatto crescere la figlia chiusa in casa e una volta grande ha iniziato ad organizzarle delle vere e proprie audizioni con dei giovani "sangue blu" per trovare quello che possa liberare la sua famiglia dalla maledizione. Penelope, primo lungometraggio del regista Mark Palansky, è un' altro di quei film che nessun distributore italiano ha voluto portare in sala e così, a due anni dalla sua uscita nei cinema americani, arriva da noi direttamente per il mercato dvd. Anche se una distribuzione più attenta, che cerchi di portare da noi la miriade di piccoli film che escono oltreoceano, sarebbe cosa gradita, questa volta non ci si lamenterà più di tanto perché, pur essendo deliziosamente accattivante, Penelope spreca un po' le ottime carte che aveva in mano. Con una cura molto particolare per le scenografie, che ricordano un po' i film di Tim Burton, la pellicola di Palansky è fondamentalmente una favola dall'impianto narrativo classico (la bella principessa vittima di una maledizione aspetta solo che un bel principe la salvi) con il suo bel lieto fine e la sua morale. Se il messaggio del film appare piuttosto palese e scontato (l' importanza di saper andare oltre le apparenze e di saper amare ed accettare ciò che è diverso, perfino se stessi) non lo è certo lo sviluppo della storia che improvvisamente prende una piega del tutto inaspettata (almeno per me). E è qui che il film mostra le sue debolezze perché, quando la protagonista riacquista la sua "normalità", il film perde un po' di quella magia che aveva sapientemente dosato fin dai primi minuti. Nonostante ciò non mi sembra un film da snobbare completamente ma da recuperare magari in una serata in cui non avete voglia di niente di troppo impegnato. E poi, diciamocela tutta, c'è Cristina Ricci che da sola vale il prezzo del noleggio. Ma quant'è carina anche con il naso da porcello?

Thursday, October 30, 2008

"Io esisto nel modo migliore che posso"

Non provo una particolare simpatia per i biopic per cui, provare a scriverne qualcosa, mi risulta sempre difficile anche perché rischio che la mia avversione per il genere mini le basi d'obiettività necessarie per parlare del film.
Ma l'obiettività è messa a rischio anche quando si prova a raccontarem, in un film, la vita e la storia di un personaggio che in qualche modo la storia l' ha fatta. Si può rimanere eccessivamente distaccati o eccessivamente coinvolti, mitizzarne o demonizzarne la figura. Insomma, affrontare un impegno del genere significa sapere bene di maneggiare materiale instabile che rischia di scoppiarti tra le mani.
Avendo in qualche modo immortalato nelle sue celebri foto e nei suoi videoclip, la MUSICA e i suoi interpreti dalla fine degli anni '70 a oggi, nel raccontare la vita di Ian Curtis, il fotografo olandese Anton Corbijn correva questo grosso rischio, forse in parte bilanciato dal trattare una sceneggiatura adattata dall' autobiografia "Touching from a distance" di Deborah Curtis, vedova del cantante.
Il film di Corbijn, uscito adesso qui da noi ma datato 2007, ripercorre gli anni della vita del leader dei Joy Division dall' incontro con Deborah, al prematuro matrimonio, la nascita della figlia Natalie e la formazione della band. Ma la sua vita raggiunge presto il suo punto più alto per iniziare una rapida discesa: la scoperta di soffrire d'epilessia, la conseguente depressione, la relazione extraconiugale con Annik Honoré e il divorzio dalla moglie, lo conducono inevitabilmente al suicidio a soli 23 anni, alla vigilia dell' inizio della prima tournee americana del gruppo.

Il bianco e nero utilizzato dal regista, non solo sembra perfetto per raccontare questo personaggio e quegli anni, ma aumenta, fino a farlo diventare oppressivo, il grigiore del sobborgo di Manchester dal quale Ian ha sempre voluto fuggire ma nel quale si è trovato sempre imprigionato. Nonostante l'avventura musicale con i Joy Division e l'amore per Annik potessero in qualche modo prospettargli un futuro lontano dai quei luoghi, il matrimonio, la famiglia e l'epilessia lo tenevano legato ad una vita che non voleva. La libertà arriva nel modo più drastico possibile in un finale molto bello e intenso dove si contrappongono le lacrime d'accettazione di Annik e il rifiuto di Deborah in un disperato tentativo di trovare un aiuto che non potrà comunque cambiare le cose.
Control è un film che, nonostante non sia perfetto (ma potrebbe tutto dipendere dai limiti di giudizio di cui parlavo in apertura o da ltroppo contrasto tra i sentimenti del regista è i ltesto dal quale il film è tratto), mi ha convinto, arrivando addirittura a conquistarmi in particolari momenti che Corbijn e la straordinaria interpretazione di Sam Riley sono riusciti a catturare. E la musica è li, non per ricordarci che quello che guardiamo è un film su Ian Curtis, ma per raccontare, senza essere invasiva ma perfettamente "narrativa", le tappe che hanno consegnato una vita breve e infelice all' immortalità.

Wednesday, October 29, 2008

This isn't a movie anymore

Se cercate da queste parti estimatori del Ben Stiller "attore", bé non mi troverete certo in prima fila tra i suoi fans urlanti. Non ho mai gradito ne trovato particolarmente brillante la carriera attoriale del giovane newyorkese fatta eccezione forse per la sua interpretazione di Chas Tenenbaum ne I Royal Tenenbaum di Wes Anderson. Non potevo invece esprimere giudizi (almeno fino ad oggi) sui suoi trascorsi registici considerato che ancora non ho avuto modo di recuperare il suo precedente Zoolander da molti acclamato come cult assoluto. A sette anni da quell' esordio, ecco nuovamente il buon Ben impegnato in un nuovo progetto dietro la macchina da presa che lo vede anche sceneggiatore insieme a Justin Teroux (lo ricorderete sia in Mulholland Drive che in INLAND EMPIRE) ed Etan Cohen (da non confondere con Ethan Coen fratello di Joel), Tropic Thunder. Così a caldo, viene da pesare che, se i risultati sono così soddisfacenti, sarebbe meglio per lui (così come Ben Affleck) limitare le presenze recitative e dedicarsi a ciò che gli riesce decisamente meglio. In questo suo nuovo film, una troupe cinematografica è impegnata ha girare quello che ambisce ad essere uno dei migliori film di guerra di sempre. Ma il giovane regista esordiente Damien Cockburn non riesce a tenere sotto controllo il cast di stelle di cui si è circondato e la produzione minaccia di fargli chiudere baracca. Deciso a tentare il tutto per tutto e convinto dall' autore del libro dal quale il film è tratto, parte con gli attori e con un tecnico per le esplosioni con l'intenzione di girare direttamente nel mezzo di una foresta vietnamita in mezzo al nulla, esperienza che dovrebbe giovare sia agli interpreti che al film. Quello che non sa e non si aspetta, è che quel territorio è battuto da un gruppo di trafficanti di droga che scambiano la ridotta troupe per un nucleo operativo della D.E.A.. Quello che colpisce immediatamente di Tropic Thunder è la sua capacità di richiamare alla memoria quanto di meglio la cinematografia americana a sfondo bellico, ha saputo fare negli anni per raccontare il conflitto nel Vietnam. Ma le sequenze che rimandano a capolavori come Apocalypse Now e Platoon, non vogliono essere mero citazionismo, così come la comicità che pervade la pellicola (sboccata e becera finalmente nella giusta misura) non deve far pensare ad intenti parodistici del genere. Stiller si concentra soprattutto nello scavare a fondo dei meccanismi che muovono tutto il mondo di Hollywood, dalla produzione di un film, agli attori, alle regole dell' Academy. Niente si salva dallo sguardo impietoso di Stiller che si diverte a mettere alla berlina il luccicante mondo del cinema americano: c'è il regista europeo che prova a sfondare negli Stati Uniti tenuto al guinzaglio da un produttore spietato e volgare (un irresistibile e irriconoscibile Tom Cruise, vera sorpresa del film). C'è l'autore del libro autobiografico che in realtà non ha mai messo la testa fuori dagli Stati Uniti e un agente pronto a combattere affinché il suo cliente abbia un "Tivo" e a venderlo subito dopo per un jet privato. Non pago di tutto ciò, Stiller dileggia compiaciuto anche il ruolo dell' attore con un parco personaggi davvero completo: si va dall'attore di action sul viale del tramonto, che tenta l'ultima carta dopo aver fallito anche con il ruolo da ritardato, all' immancabile ed onnipresente rapper. Dal comico petomane che si ricicla come attore drammatico, al maniaco dell' immedesimazione (il Kirk Lazarus di Downey Jr che da solo si vale il prezzo del biglietto) che arriva a modificarsi la pigmentazione per entrare a fondo nel personaggio senza essere quasi più in grado di "uscirne". In Tropic Thunder c'è tutto questo e benché il film potesse essere anche più cattivo, non si può non applaudire ad un umorismo che si spinge fino al politicamente scorretto (panda trucidati e bambini scagliati con violenza) e al coraggio (o strafottenza) di Stiller nello sputare beato nel piatto dove mangia. E lo fa con gusto.

Tuesday, October 28, 2008

Ma qualcuno si ricorda di: IL PRANZO E' SERVITO

L' avversione che provo verso il mezzo televisivo è cosa di cui non faccio certo segreto.
Non mi riconosco nei programmi di oggi, in questi reality (che poi di reale hanno poco e niente), e anche i programmi comici da qualche tempo mi stanno pesantemente sulle scatole.
Ed ecco perché dalla televisione mi sono allontanato.
Eppure c'era un periodo in cui non la disprezzavo così tanto, un periodo che credo quelli della mia generazione ricorderanno sicuramente.
Quando c'erano tanti film sia in prima che in seconda serata invece di insulsi format comprati da tutto il mondo.
Quando i programmi televisi mi piacevano.
"Il Pranzo è Servito" è uno di questi e sentire la sigla mi fa un certo effetto ancora oggi.
Vi lascio un paio di video (grazie YouTube!!!) nel caso aveste dimenticato:



Monday, October 27, 2008

Dal Belgio al Giappone

Bruges è una piccola cittadina medievale in Belgio. Bruges diventa il rifugio per due killer, Ray e Ken, esiliati dal loro boss Harry dopo che Ray ha combinato un grosso pasticcio durante il suo primo incarico da sicario. Quindi, in un attimo, via da Londra per fare una "vacanza" nel cuore del Belgio e aspettare che le acque in Inghilterra si calmino un po'. In realtà Harry ha le idee molto chiare ed è sua intenzione far si che Ken faccia fuori Ray proprio a Bruges. Per il suo esordio cinematografico il regista e sceneggiatore Martin McDonagh, scrive e dirige una storia di killer, ma soprattutto di uomini che, allontanati da "casa" hanno modo di riflettere e riconsiderare le loro prospettive di vita. La suggestiva e bellissima cornice della cittadina belga diventa "ritrovo" per affascinanti ladre che circuiscono i turisti, skinhead non proprio svegli e attori nani, ma soprattutto offre ai protagonisti un rifugio e la possibilità per un nuovo inizio: sia Ken che Ray troveranno a Bruges qualcosa per cui valga la pena chiudere per sempre con il passato anche se questo comporta decisioni drastiche e definitive. I personaggi principali, Ken e Ray (ai quali si aggiunge Harry nella parte finale del film), cuore e anima del film, sono scritti benissimo e dialoghi divertenti e spesso taglienti (imperdibile i dialoghi con il nano e i suoi deliri razzisti o quelli con i turisti americani sovrappeso) gli regalano un maggiore "spessore". Parte del merito va comunque ai tre ottimi interpreti chiamati a ricoprire i ruoli: gli irlandesi Colin Farrel e Brendan Gleeson e l' inglesissimo Ralph Fiennes. Un film passato un po' in sordina ma che merita sicuramente di essere riscoperto per tutti i motivi elencati sopra.

Un anno prima del suo esordio cinematografico con Love Letter il regista giapponese Shunji Iwai dirige e sceneggia un mediometraggio dal titolo Undo. La storia vede una giovane coppia, Yukio e Moemi, attraversare un periodo molto particolare del loro rapporto. Lui, sempre molto impegnato e distratto per via del lavoro, decide di prendere un animale di compagnia per la moglie. Impossibilitati a tenere animali di media e grossa pezzatura nel loro piccolo appartamento, Yukio compra alla moglie due piccole tartarughe. Da quel momento in avanti qualcosa in Yukio cambia e manifesta una mania ossessiva per i nodi ed inizia così a legare ogni cosa, anche se stessa. Con questi pochi elementi Iwai imbastisce una storia di disagio di coppia che diventa progressivamente un disagio mentale, sensazione amplificata dall' uso di scenografie spoglie, sporche, quasi marcescenti: i "legami" diventano il fulcro della narrazione (una tartaruga viene incatenata mentre l'altra è quella "di casa") così come dei comuni oggetti rappresentano quei legami stessi (lei rimette l'apparecchio odontoiatrico perché da quando l'ha tolto lui trova che i loro baci siano diversi). Ma questa progressiva follia metterà completamente a nudo il loro rapporto: mentre Yukio si allontana da Moemi, lei cerca disperatamente di legare il loro amore conscia del fatto che è il marito l'anello debole del loro rapporto. "Legami bene" ripeterà lei alla fine, portando Yukio quasi allo sfinimento. E lui si prodiga per eseguire dei nodi sempre più stretti convinto che acconsentendo a partecipare a quella che lui considera solo una follia, può aiutare la moglie a guarire. Yukio è però ignaro (così come noi fino alla fine) che quella è l'ultima prova a cui lei lo sottopone, quella con cui può dimostrare quanto ancora voglia Moemi con se. Ma quando lui si sveglia il mattino seguente la moglie non c'è più e i nodi che la legavano tutti sciolti. Solo lui è legato e immobilizzato sul pavimento. Nel suo piccolo, uno dei migliori Iwai visti fino ad oggi.

Per il suo secondo mediometraggio (datato 1996), Iwai continua ad esplorare la complessità dei disagi mentali questa volta inserendoli in un contesto maggiormente consono all' argomento, un istituto d'igiene mentale. Al suo interno facciamo la conoscenza di quelli che saranno i protagonisti, tre pazienti dell' istituto, Coco, con la sua mania di vestirsi come un corvo, Satoru e Tsumuji (interpretato da un bravissimo Tadanobu Asano) perseguitato da visioni inquietanti di un suo professore che crede di aver ucciso. Durante una delle loro escursioni sul muro di cinta della clinica, Coco e Tsumuji incontrano un prete che regala loro una Bibbia. Dalla sua lettura Tsumuji apprende che quando il mondo finirà tutti gli uomini saranno giudicati e solo chi crede in Dio potrà essere salvato e raggiungere così il paradiso. Convinto che la data di stampa del libro corrisponda a quella del Giorno del Giudizio, organizza con Coco e Satoru un picnic proprio quel giorno per attendere la fine di tutto nel punto migliore dal quale osservare l'evento. Come in Undo, Iwai usa scenografie "sporche", umide, (in particolar modo quelle all' interno della clinica) per dare un' identità "visiva" dell' inferno che i tre protagonisti vivono nelle loro teste. Da qui nasce la necessita di "evadere" contrapposta però alla certezza che non esiste un "esterno" dove loro possano vivere o esistere, che si concretizza nel camminare sui muri di cinta, su balaustre o ringhiere senza mai mettere i piedi per terra. Superare quei confini equivarrebbe a tornare in prigionia, a morire o ancora peggio a non riuscire a raggiungere la metà, la fine di tutto. Ma questa metà è una mera illusione, non esiste salvezza e Iwai mette l'accento su questo concetto con un finale pessimista ma altrettanto bellissimo e struggente. Un' altro piccolo gioiello da quello che, a conti fatti, si sta rivelando uno dei migliori registi in terra nipponica.

Sunday, October 26, 2008

Lyric of the Week + Video / PETER GABRIEL - DOWN TO EARTH

**Non guardate il video se non avete visto Wall-E. Guardatelo se l'avete visto o se non avete intenzione di andarlo a vedere...magari cambiate idea ^__^**


Did you think that your feet had been bound
By what gravity brings to the ground?
Did you feel you were tricked
By the future you picked?
Well come on down

All these rules don't apply
When you're high in the sky
So come on down
Come on down

We're coming down to the ground
There's no better place to go
We've got snow upon the mountains
We've got rivers down below
We're coming down to the ground
To hear the birds sing in the trees
And the land will be looked after
We send the seeds out in the breeze

Did you think you'd escaped from routine
By changing the script and the scene?
Despite all you made of it
you're always afraid of the change

You've got a lot on your chest
Well you can come as my guest
So come on down
Come on down

We're coming down to the ground
There's no better place to go
We've got snow upon the mountains
We've got rivers down below
We're coming down to the ground
We'll hear the birds sing in the trees
And the land will be looked after
We send the seeds out in the breeze

Like the fish in the ocean
We felt at home in the sea
We learned to live off the good land
We learned to climb up a tree
Then we got up on two legs
But we wanted to fly
When we messed up our homeland
and set sail for the sky

We're coming down to the ground
There's no better place to go
We've got snow upon the mountains
We got rivers down below
We're coming down to the ground
We'll hear the birds sing in the trees
And the land will be looked after
We send the seeds out in the breeze

We're coming down
Comin' down to earth
Like babies at birth
Comin' down to earth

Redefine your priorities
These are extraordinary qualities

We're coming down to the ground
There's no better place to go
We've got snow upon the mountains
We've got rivers down below
We're coming down to the ground
We'll hear the birds sing in the trees
And the land will be looked after
We send the seeds out in the breeze

We're coming down to the ground
There's no better place to go
We've got snow upon the mountains
We've got rivers down below
We're coming down to the ground
We'll hear the birds sing in the trees
And the land will be looked after
We send the seeds out in the breeze

Redefine your priorities
These are extraordinary qualities

Friday, October 24, 2008

"Nothing's yours when you invite a teenager into your home"

Gli "inestricabili misteri della distribuzione italiana" è un argomento potenzialmente inesauribile che si tira in ballo ogni qual volta un titolo non giunga nel nostro Bel Paese o arrivi con un ritardo considerevole: "Perché non è stato distribuito?" o "Perché esce proprio adesso?" sono le domande che ci si pone più frequentemente. Hard Candy di David Slade non allontana certo l'argomento, anzi si offre apertamente come esempio lampante del discorso di poco sopra. Uscito nel 2005 arriva da noi solo nel 2008 e forse il motivo è da ricercare nella tematica, abbastanza pesante, affrontata nel film: la pedofilia. Non penso che il motivo della sua distribuzione, tra l'altro solo per l' home video, sia da ricercare nel regista, che al momento ha al suo attivo solo quel mezzo film che è 30 Giorni di Buio, ma più probabilmente nella giovane attrice protagonista, la sorprendente Ellen Page fattasi notare negli ultimi mesi per la sua interpretazione in Juno. Qualunque sia il motivo comunque, è una gran cosa che il film finalmente abbia attirato la giusta attenzione perché si tratta di un thriller davvero molto valido. I protagonisti sono la quattordicenne Haley e il fotografo trentaduenne Jeff. I due si conoscono in una chat e decidono di incontrarsi in una caffetteria. Nonostante Jeff cerchi di mantenere una certa distanza, il fare provocatorio di Haley lo convince ad invitare la ragazzina a casa sua. Come una novella Cappuccetto Rosso (il look, come si può vedere anche nella splendida locandina, non fa che portare alla mente il personaggio delle favole) si troverà così nella tana del lupo. Andare oltre nella descrizione della storia mi porterebbe a inciampare sicuramente nello spoiler perciò mi fermo qui anche perché, la forza del film di Slade sta nel confondere i ruoli, cacciatore - preda - vittima - carnefice, fin da subito e di mantenere sospesa la risoluzione della vicenda fino alla fine, rimescolando spesso le carte in tavola in un continuo crescendo di tensione. Ma quel che fa veramente piacere è assistere ad un film costruito soprattutto sui dialoghi (i momenti d' "azione" sono molto circoscritti) che non inciampa in momenti di noia e fila dritto dall' inizio alla fine. Se consideriamo poi che tutto il peso del film è sorretto da due attori soltanto (e qui bisogna veramente applaudire alla bravura della giovanissima Ellen Page) è chiaro che ci troviamo di fronte ad un film che sarebbe un peccato lasciarsi scappare. Se non l'avete visto in lingua originale, questo è il momento di noleggiarlo.

Thursday, October 23, 2008

Mai...mai...scorderai...l' attimo...la terra che tremò...

Spero nessuno caschi dalle nuvole se adesso parlo di Kenshiro, protagonista assoluto del manga Hokuto no Ken (in Italia conosciuto come Ken Il Guerriero) e dell' omonimo anime. Perché, se nella vostra vita non l'avete mai sentito nominare allora, o siete troppo giovani (il che mi farebbe sentire dannatamente vecchio) o siete morti alla fine degli anni '80 (e non ve ne siete accorti). Per venire incontro a voi poveri sventurati, farò un breve riassunto: Kenshiro è l' ultimo successore della divina scuola di Hokuto dove, da circa 1800 anni, si insegna un' arte marziale dalla potenza devastante. I colpi di questa divina arte infatti, mirano a raggiungere alcuni punti di pressione specifici presenti nel corpo umano che portano inevitabilmente alla sua distruzione. In un mondo devastato dalla terza guerra mondiale, Kenshiro ha anche il compito di riportare l'ordine dove ormai il caos regna sovrano, dove tutti cercano di ottenere il potere schiacciando i più deboli. Tra questi, il fratello maggiore di Ken, Raul. Questa è a grandi linee la storia che sta alla base del manga. Ora, in occasione del ventesimo anniversario, sono stati prodotti quattro film animati che riprendono alcuni degli episodi chiave della lunga saga di Ken, il primo dei quali è arrivato nelle sale italiane lo scorso luglio. La Leggenda di Hokuto, questo il titolo, si concentra sugli avvenimenti che portano il nostro benamato Kenshiro a venire alle mani con il più forte guerriero di Nanto (scuola rivale di Hokuto), Sauzer, autoproclamatosi Imperatore e impegnato a costruire un imponente mausoleo sfruttando il lavoro di bambini strappati alle loro famiglie. Aiutato dai ribelli anti imperiali guidati da Shu, guerriero cieco della scuola di Nanto, Ken combatterà nel tentativo di far crollare le ambizioni del novello imperatore, ma si troverà contro un avversario che sembra immune alle tecniche di Hokuto. Ora, qual'è la più grande problematica di un film così? Sicuramente, se appartenete a quel gruppo al quale facevo riferimento in apertura, questo film potrà risultare parecchio ostico da seguire. La storia fa dei riassunti di massima ma sono talmente tanti i personaggi introdotti, con il loro background e le relazioni che li legano, e gli avvenimenti ai quali si fa riferimento che molte cose rimarranno completamente oscure. La Leggenda di Hokuto appare quindi a tutti gli effetti un film fatto per i fan e scommetto che chiunque abbia memoria della storia originale non faticherà ad anticipare il susseguirsi degli eventi e anche qualche dialogo. Io ho sempre amato Ken, la sua storie e i tanti personaggi creati da Buronson e Hara. In qualche modo ha fatto parte della mia tarda infanzia/prima adolescenza e ricordo ancora quando alle medie si giocava a premere i punti di pressione degli sventurati compagni di classe e regolarmente ci si rovinava maledettamente. Eppure questo film non mi ha coinvolto come avrei voluto e sperato. Probabilmente gran parte della colpa ricade su di una realizzazione tecnica per nulla brillante, ma mi si insinua nella mente il dubbio che il mito di Ken sia, forse non tramontato, ma decisamente appannato. Sara colpa dell' età (non la mia, ma la sua).

Wednesday, October 22, 2008

Time for something serious

Oggi si mette da parte cinema, dvd, musica ed altre frivolezze.
E lo faccio con estremo piacere, credetemi amici, perchè vi parlerò di una bellissima iniziativa portata alla mia attenzione dall' amico Heike del Blog Ottuso.
E' bene chiarire subito che si tratta di un 'iniziativa a scopo di beneficenza, organizzata dalla UNIVOC (Unione Nazionale Italiana Volontari pro Ciechi) e che vanta la collaborazione di alcuni grandissimi artisti sia italiani che internazionali.
Riporto qui di seguito l' anima del progetto attraverso le parole di uno dei suoi organizzatori, Alessio consigliere Univoc:

I Visionauti sono 32 artisti italiani e stranieri che hanno realizzato, a scopo benefico, un calendario in 2 versioni per conto della sezione di Prato dell'Unione Nazionale Italiana Volontari pro Ciechi. Fra di loro ricordiamo: Scott Morse, Ivo Milazzo, Miguel Angel Martin, Leo Ortolani, Paolo Bacilieri, Aleksandar Zograf, Werther Dell'Edera, Massimo Bonfatti, Stefano Misesti, Massimo Giacon e Dave Taylor. Le 2 versioni differiscono completamente l'una dall'altra e contengono
ciascuna 15 disegni ed un racconto di Lorenzo Bartoli (tutto materiale inedito). I proventi della vendita serviranno interamente per continuare a garantire servizi utili ai portatori di handicap della vista.

Si può acquistare, al costo di 10 euro, nei seguenti modi:
- alla prossima Lucca Comics (30 ottobre-2 novembre, presso gli stand Double Shot, Leopoldo Bloom, Passenger Press, ReNoir, Tespi/Nicola Pesce e Tunuè)
- attraverso il catalogo Anteprima che presenterà il calendario nel numero di novembre;
- presso la fumetteria "Mondi Paralleli" di Prato (v. Ser Lapo Mazzei n° 26, tel. 0574-41903, e-mail mondi_paralleli@inwind.it);
- scrivendo all'indirizzo: visionauti@gmail.com.

Testo inglese
The Visionauti are 32 italian and foreign artists who realized, for a charitable aim, a calendar in two versions, for the account of the Prato section of the "Unione
Nazionale Italiana Volontari pro Ciechi". Between them we remember: Scott Morse, Ivo Milazzo, Miguel Angel Martin, Leo Ortolani, Paolo Bacilieri, Aleksandar
Zograf, Werther Dell'Edera, Massimo Bonfatti, Stefano Misesti, Massimo Giacon and Dave Taylor. The two versions are completely different one to the other and each one contains 15 drawings and a short story by Lorenzo Bartoli (everything is unpublished). The income deriving from the sales will be entirely used to
continue to guarantee useful services for sight disabled people.
You can buy the calendars for 10 E. each during the next Lucca Comics (30th october-2nd november at the stands Double Shot, Leopoldo Bloom, Passenger
Press, ReNoir, Tespi/Nicola Pesce and Tunuè) or writing to:
visionauti@gmail.com.

Ecco le due versioni dei calendari:



E due immagini promozionali da inserire nei blog per promuovere l'iniziativa:


Detto questo amici, lo so che dieci euro di questi tempi non sono pochi, ma se si ha la possibilità è sempre meglio non perdere l'opportunità di fare del bene. Inoltre, non vi portate a casa solo un calendario ma un vero e proprio gioiellino che non vi dispiacerà tenere sul muro anche una volta esaurita la sua annuale utilità.
Perciò, dimostrate a tutti che non indossate solo T-Shirt perchè avete le braccina corte, smentite chi vi accusa di avere le vipere nelle tasche e mettete mano al portafoglio ^__*.
O perlomeno diffondete e pubblicizzate questa importante iniziativa.
Un grazie di cuore a tutti quanti ^__^

Tuesday, October 21, 2008

La meravigliosa storia del robot dagli occhi tristi

La Pixar non fa film, fa miracoli.
Non solo, anno dopo anno, riesce a dare nuovi significati al termine "meraviglia" ma riesce sempre più a raggiungere tutte le generazioni, a stupire ed incantare con storie che comunicano su più livelli sia ai bambini che agli adulti. Così, mentre i più piccoli ridono beati, a noi adulti risulta impossibile non percepire la critica feroce verso la nostra società, quel dito puntato che Andrew Stanton ed il suo team rivolgono verso di noi che lasceremo ai più giovani questo mondo in eredità. La prima parte di WALL-E non fa che confermare questi pensieri:
Il film inizia con la telecamera che precipita verso il nostro pianeta attraversando una marea di satelliti artificiali che ne ricoprono l'atmosfera. Le note solari del musical Hello Dolly contrastano con lo scenario che ci troviamo di fronte, una Terra morta, abbandonata, dove i cumuli di rifiuti superano in altezza i grattacieli, dove gigantesche banche, immensi centri commerciali sono l' emblema di un capitalismo e di un consumismo che ha letteralmente esaurito il nostro mondo. In questo deserto di rottami e polvere, un piccolo robottino svolge incessantemente il lavoro per cui è stato creato: il suo nome è WALL-E (acronimo di Waste Allocation Load Lifter Earth-class) ed il suo compito è raccogliere rifiuti, trasformarli in piccoli cubi ed accumularli, compito che svolge da settecento anni in compagnia di un piccolo insetto suo unico amico. La sua routine quotidiana si interrompe bruscamente con l'arrivo sulla terra di EVE (Extraterrestrial Vegetative Evaluator) robot-sonda inviato per trovare tracce di vita vegetale per un eventuale ritorno sulla terra degli esseri umani.
Da qui comincia una storia d'amore che rapisce il cuore degli spettatori, un sentimento platonico (che non mi sembra esagerato paragonare a quelli raccontati da Miyazaki nei suoi film) esternato dal desiderio di WALL-E di tenere per mano la sua amata, dal desiderio di proteggerla, di tuffarsi nello spazio pur di non perderla, coronato da una danza tra le stelle di una bellezza commovente. A questi due robot, artificiali ma incredibilmente "umani" (nelle movenze o nelle splendide espressioni), Stanton affida un messaggio di speranza per la razza umana che, all' apice dello sviluppo si è involuta in una civiltà di obesi che passa il suo tempo sdraiata, che ha dimenticato cosa significa guardare il mondo oltre uno schermo, o il piacere del contatto. A due opere dell' uomo l' arduo compito di rieducare l'uomo stesso, ponendo le basi per una nuova evoluzione: EVE è la speranza per il futuro, WALL-E è l'importanza della memoria storica. Il suo collezionare "memorabilie" dal passato serve a tenere vivo il ricordo di ciò che era, un monito per impedire che tutto ciò si ripeta.
Un messaggio questo, la convivenza armonica tra passato e futuro, che in WALL-E è sempre ben presente, a partire dall' estetica dei due personaggi principali (squadrato e arrugginito lui, moderna e avveniristica lei) passando ad un uso della musica e di importanti citazioni cinefile tutt'altro che fuori contesto e perfettamente funzionali al racconto, fino ad arrivare a dei titoli di coda dove assistiamo ad una rappresentazione grafica della "nuova" storia dell' uomo, partendo dai disegni sui muri fino ad arrivare alla grafica dei computer a 8 bit.
WALL-E è un capolavoro, l' ennesimo, che la Pixar ci regala. Come si diceva all' inizio, un "miracolo" che rapisce dall' inizio alla fine, che fa emozionare con una semplicità disarmante, che ci fa immedesimare nel suo piccolo protagonista mentre scopre le meraviglie dell'universo.
E noi siamo sempre li con lui mentre le galassie si riflettono nelle sue lenti binoculari o mentre allunga la "mano" a toccare le stelle.


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Monday, October 20, 2008

Da grandi poteri derivano grandi responsabilità?

Cosa sarebbe successo se Peter Parker non avesse perso lo zio Ben? Cosa ne sarebbe stato di Superman se non fosse stato adottato dai coniugi Kent? O agli X-Men se non fossero stati presi sotto l'ala protettiva del Professor Xavier? Sarebbero diventati gli eroi che conosciamo, consci del loro potere e della responsabilità che esso comporta, o sarebbero diventati dei disadattati pieni di rabbia come Hancock? Hancock è virtualmente indistruttibile, fortissimo e può volare. A differenza degli eroi sopra citati non indossa un costume ma anzi, è abbastanza trascurato nell' abbigliamento e trasandato nell' aspetto, si ubriaca e dorme sulle panchine. E' l'unico (o ultimo) della sua "specie", non ha famiglia ne ricordi del suo passato. Si comporta da eroe, sventa rapine, ferma i malviventi in fuga ma, sotto l'effetto dell' alcol, fa più danni di quelli che dovrebbe prevenire. La gente non sopporta più i disastri che procura, il Sindaco vorrebbe che lasciasse la città, il Procuratore Distrettuale vorrebbe farlo arrestare. Un giorno salva la vita a Ray Embrey giovane PR che stava per essere travolto da un treno. Ray vede in Hancock la possibilità preziosa di dare una nuova spinta al suo lavoro un po' traballante e decide di prenderlo sotto la sua ala protettiva ricostruendogli da zero un' immagine pubblica. Spunto interessante quello da cui parte il film di Peter Berg, Hancock, l' ultimo blockbusterone hollywoodiano che vede Will smith come assoluto protagonista: raccontare di un supereroe che non sa farsi amare dalla gente e, come una stellina del pop che non sa fare altro che finire sui telegiornali per qualche scandalo, ricorre all' aiuto di un esperto in pubbliche relazioni piuttosto che ad un mentore che gli insegni come usare le sue straordinarie abilità. Grande dispendio di effetti speciali (veramente belli a vedersi) e tanta ironia nel dipingere la figura del supereroe classico, figura alla quale Hancock fatica ad uniformarsi. Insomma, se il film finisse nei primi quarantacinque minuti (circa) ci troveremmo di fronte ad un film sicuramente riuscito. Il problema è che Hancock continua, ma invece di mantenere la rotta fa una brusca virata (coraggiosa? Azzardata?) puntando sulle origini dal personaggio (parte decisamente superflua) e diventando il più classico dei film supereroistici. Ora, in un anno in cui lo standard qualitativo dei film sui supereroi è stato decisamente alto, una scelta del genere porta a degli inevitabili confronti decisamente controproducenti. Ed infatti, quando Hancock diventa un eroe a tutto tondo (con tanto di costume in pelle) il film perde tantissimo sia in interesse che in spettacolarità. Però Will Smith il suo bell' assegno l'avrà incassato credo. E così anche regista, sceneggiatori e compagnia cantante? E noi spettatori? Chi ha pagato il biglietto che se ne fa di metà film?

Sunday, October 19, 2008

Lyric of the Week + Video / JOAN OSBOURNE - ONE OF US


If God had a name, what would it be
And would you call it to his face
If you were faced with him in all his glory
What would you ask if you had just one question

And yeah yeah God is great yeah yeah God is good
Yeah yeah yeah yeah yeah

What if God was one of us
Just a slob like one of us
Just a stranger on the bus
Trying to make his way home

If God had a face what would it look like
And would you want to see
If seeing meant that you would have to believe
In things like heaven and in Jesus and the saints and all the prophets

And yeah yeah God is great yeah yeah God is good
Yeah yeah yeah yeah yeah

What if God was one of us
Just a slob like one of us
Just a stranger on the bus
Trying to make his way home
He's trying to make his way home
Back up to heaven all alone
Nobody calling on the phone
Except for the Pope maybe in Rome

And yeah yeah God is great yeah yeah God is good
Yeah yeah yeah yeah yeah

What if god was one of us
Just a slob like one of us
Just a stranger on the bus
Trying to make his way home
Just trying to make his way home
Like a holy rolling stone
Back up to heaven all alone
Just trying to make his way home
Nobody calling on the phone
Except for the Pope maybe in Rome

Friday, October 17, 2008

"You know, the dreams have just begun"

THE VERVE
FORTH (2008)

1) Sit and Wonder
2) Love is Noise
3) Rather Be
4) Judas
5) Numbness
6) I See Houses
7) Noise Epic
8) Valium Skies
9) Columbo
10) Appalachian Springs

Ok, ok, mi son dovuto ricredere, lo ammetto. Neanche
tanto tempo fa parlavo del nuovo singolo dei Verve e di come non mi avesse proprio convinto, risultando al di sotto delle aspettative che avevo per questo gradito ritorno della band inglese. Eppure sono settimane che ascolto il loro nuovo album, Forth, e mi sono completamente lasciato conquistare dai suoni di Richard Ashcroft e soci.
Dieci canzoni, dieci piccoli passi per riavvicinarsi ad un gruppo rimasto lontano dalle scene musicali (se si escludono i lavori solisti del loro leader) per tanto, troppo tempo. Un percorso che va dalla bellissima Sit and Wonder, passando per Love is Noise (tutta un' altra cosa ascoltata nel contesto del disco), le atmosfere pacate di Judas, le ballate I See Houses e Valium Skies (bellissima!!!), il crescendo di Noise Epic e la chiusura con Appalachian Spring.
I loro suoni ci sono tutti e rimandano indietro al bellissimo Urban Hyms, disco che li spinse ad un successo mondiale ma anche nel baratro di un improvviso scioglimento (non il primo a dir la verità).
Ma ora sono tornati (si spera per restare) e dopo dieci anni, cazzo, questo disco è una vera manna.

Thursday, October 16, 2008

Un' Utopia in terra giapponese

In un Giappone in piena crisi finanziaria, la struttura economica che lega le grandi aziende a tutte le attività più piccole, i creditori ai debitori, è fragile come un castello di carte: basta un soffio di vento che la carta che sta in cima cade portando con se tutto quello che gli sta sotto. Così la dichiarazione di fallimento della società del magnate Ookura Nagashima coinvolge irrimediabilmente le piccole attività ad essa collegate, come la tipografia di Seisuke Umemoto che si trova da un giorno all' altro senza lavoro, senza i soldi per pagare i dipendenti e per liquidare le cambiali di cui il fratello è garante. Preso dallo sconforto si dirige in periferia allo scopo di togliersi la vita ma il destino vuole che incappi nel bel mezzo di uno scontro tra una banda di giovani Yakuza e dei senzatetto. Proprio nell' aiutare uno di questi ultimi rimasto ferito, incontra il loro leader, curioso personaggio conosciuto come "Capo Villaggio" (interpretato da un grandioso Sho Aikawa dalla capigliatura improbabile) e di Kuwata, il Vice-Capo Villaggio. Venuti a conoscenza della sventurata storia di Umemoto, decidono di ricambiare la sua gentilezza aiutandolo a rimettersi in piedi finanziariamente e con l'occasione dare una lezione a Nagashima che non ha la minima intenzione di usare il suo patrimonio per pagare i debiti della sua società. Gli Uomini di Utopia, nome della baraccopoli dove il Capo Villaggio e gli altri senzatetto vivono, sono dei perfetti personaggi "miikiani": a differenza dei "senza patria" che il regista giapponese ama raccontare di solito, questi sono Giapponesi esiliati ai margini della società, la stessa società che li ha generati e nella quale non si riconoscono più. Ed eccoli quindi creare un loro piccolo paradiso in una baraccopoli (non a caso nella periferia di Osaka, luoghi in cui Miike è nato e cresciuto), un paese ideale che raccoglie tutti coloro che vogliono separarsi dal resto del mondo e dalle sue regole. Un posto dove la ricchezza finanziaria non fa la differenza, dove si tengono vivi i valori fondamentali di fratellanza e collaborazione che dovrebbero essere i cardini fondamentali su cui poggia ogni società. Un' utopia si, ma con i piedi ben piantati per terra, che sa come va il mondo e che affronta l' "altro" Giappone (quello dell' alta finanza, degli imprenditori avidi, dei creditori inflessibili) con l'unica arma possibile, i soldi. Shangri-La è, allo stesso tempo, un vivido spaccato del Giappone e una favola ottimista dall' inaspettato lieto fine (una vera rarità per il cinema di Miike), riflessiva e scanzonata. Ideale per chi vuole conoscere un lato della poetica del regista giapponese che spesso e volentieri viene messo in ombra dai suoi film più folli e "malati".

Wednesday, October 15, 2008

AD UN PRIMO SGUARDO: PRISON BREAK - SEASON 04, HEROES - VOLUME 03 E BORIS 2

Ok, i dubbi che mi aveva lasciato la terza stagione stanno diventando una realtà concreta: Prison Break sta cambiando, sta diventando qualcosa di nuovo, qualcosa che si avvicina (con le dovute differenze) a 24 nei suoi momenti più "spionistici". Non voglio dire che i primi quattro episodi visti non mi siano piaciuti anche perché la serie ha sempre un ottimo ritmo, ma non riesco a digerire il fatto che oltre a proseguire in maniera un po' forzata, Prison Break è stata snaturata. Tra l'altro torna un personaggio che doveva essere morto. Non scrivo chi è anche se le immagini promozionali (come quella che ho pubblicato) hanno spoilerato più del dovuto, ma questo ritorno un po' posticcio mette soprattutto in evidenza l' idiozia totale di Lincoln: impagabile la sua espressione quando si accorge dell' errore madornale che ha fatto. La sua faccia è come se dicesse "Minchia ne ho combinata un'altra delle mie!"

Sono pronto ad essere smentito ma, a mio modestis- simo parere, i primi quattro episodi del Volume 3 di Heroes, sono meglio di tutta la seconda stagione messa assieme. La serie parte di corsa e non sembra accennare ad una frenata mentre i destini dei protagonisti si delineano tra presente e futuro. Molti pesi morti tirati in ballo nel Volume 2 sembrano essere stati accantonati (e speriamo non tornino) mentre altri personaggi interessanti torneranno dopo essere stati liquidati in maniera troppo sbrigativa (vedi Adam). Vengono introdotti nuovi characters e finalmente vengono svelati piccoli particolari rimasti oscuri sin dalla prima stagione (da chi ha preso il potere dei sogni premonitori Peter Petrelli? Come fa Sylar ad acquisire le abilità altrui?). Dopo un inizio così mi attendo moltissimo, spero quindi di non essere deluso un' altra volta.

La prima stagione non era solo un fuoco di paglia: con Boris 2 la "fuori serie italiana" si conferma prodotto seriale assoluta- mente geniale. La serie prosegue dove si era interrotta, con gli Occhi del Cuore ormai presenza fissa nei palinsesti. Qualche personaggio abbandona la serie per fare spazio a quelli nuovi, tra cui l'attore in piena crisi mistica Mariano Giusti, interpretato da una guest star d'eccezione: Corrado Guzzanti. Acquisto migliore non poteva essere fatto per Boris e vi assicuro che quando c'è lui si ride fino alle lacrime. Naturalmente il lavoro sul set (eseguito, come da manuale, a cazzo di cane) sarà regolarmente influenzato, spesso in negativo, dalle vicissitudini personali dei vari personaggi. Ma mi sono sbilanciato anche troppo: il giudizio definitivo a visione terminata.

Tuesday, October 14, 2008

"Don't go out there! There's something in the mist!"

"Benvenuti, signore e signori alla fiera delle mostruosità. Guardate attraverso il vetro il campionario di esemplari che si agitano all' interno, che lottano per sopravvivere mettendo in mostra quanto di peggio la società ha da offrire". Un piccolo supermercato. All' interno un eterogeneo gruppo di persone, uomini, donne, bianchi, neri, credenti, razionali e folli. Una fragile vetrata li separa dall' esterno, dall' ignoto. Frank Darabont si confronta ancora una volta con le pagine di Stephen King e ancora una volta con successo. A differenza de Le Ali della Libertà e de Il Miglio Verde, questa volta sceglie un soggetto completamente horror, il racconto "La Nebbia" tratto dalla raccolta "Scheletri", che coglie alla perfezione gli elementi chiave della narrativa "kingiana": una piccola comunità (la sfortunatissima cittadina immaginaria di Castle Rock) e il sovrannaturale che si riversa nella quotidianità. Dopo una tempesta di violenza straordinaria, David Drayton e il figlio decidono di recarsi in città per fare scorta di provviste in previsione dei difficoltosi giorni a venire. Ma l'idea di una rapida sortita per la spesa si infrange di fronte all' evidenza che l'intera cittadina ha avuto la sua stessa idea. All' improvviso un uomo sanguinate si precipita all' interno del supermarket gridando "C'è qualcosa nella nebbia!". E in pochi minuti una densa foschia "inghiotte" la città e gli avventori del negozio si ritrovano prigionieri al suo interno, minacciati da qualcosa che si muove nella nebbia. The Mist è un piccolo horror (la qualità degli effetti visivi, al di sotto della media, mettono bene in evidenza la sua natura di b-movie) che funziona maledettamente bene: Darabont strizza l'occhio al cinema di genere del passato, (The Fog di Carpenter o Dawn of the Dead di Romero) tirando in ballo anche la possibilità che la causa dell' orrore che si è scatenato nella città dipenda di un'esperimento dell' Esercito andato male (possibilità fortunatamente solo accennata), ma con le idee ben radicate nel presente (ancora la nebbia, utero fecondo di orrori in Silent Hill, sia videogioco che film) puntando ad una riflessione già sviscerata sapientemente da Shyamalan in The Village: anche qui infatti troviamo una piccola comunità che si isola dall' "esterno" (i paralleli con l' America dei giorni nostri si sprecano) per proteggersi. Ma se la minaccia peggiore arrivasse dall' "interno"? E se guidati dalla paura gli uomini diventassero più pericolosi degli abomini che si celano nella nebbia? "Lascia degli uomini al buio e non ci saranno più regole", cinico ma reale. Il fronte comune si frammenta e l'arrogante avvocato di colore raduna la "sua gente" mentre la folle predicatrice (una grandissime e odiosa Marcia Gay Harden) fa proseliti in cerca di vittime da sacrificare alla Bestia. E chi conserva ancora un po' di buon senso, un po' di razionalità in mezzo alla follia, cerca nell' esterno la salvezza, aggrappandosi alla flebile speranza che ci sia qualcosa oltre la nebbia. Ciò che eleva il mio giudizio ben al di sopra de "onesto horror movie ben scritto e ben girato", è soprattutto QUEL finale bellissimo, coraggioso, agghiacciante, pessimista: la flebile speranza di poco sopra non è fatta per l'uomo, che la baratta troppo facilmente in cambio di ciò che gli da una sicurezza immediata ma non di certo meno flebile, fosse anche soltanto una pistola e quattro proiettili.

Monday, October 13, 2008

...prima che il diavolo sappia che sei morto

Dall' alto dei suoi ottantaquattro anni, Sidney Lumet non ci sta a farsi da parte in favore delle nuove generazioni ma dimostra di avere ancora qualcosa da dire in ambito cinematografico. E non lo fa in maniera leggera e anonima, ma con la forza e l'impeto di chi ha maturato anni e anni di esperienza sulle proprie spalle.
Nasce così Onora il Padre e La Madre (in originale Before the Devil Knows Your Dead) storia che vede come protagonisti due fratelli: Andy, il maggiore, è un drogato che ruba i soldi alla propria compagnia nutrendo il desiderio di abbandonare tutto, trasferirsi a Rio ed iniziare li una nuova vita nella speranza di ricostruire il rapporto con la moglie Gina. Lei intrattiene una relazione extraconiugale con il fratello minore di Andy, Hank, che tra alimenti da pagare alla ex-moglie e l'affitto, si trova sempre in grosse difficoltà economiche. Andy pensa di coinvolgere il fratello in un piano criminale che potrebbe fruttare parecchi soldi e risolvere i problemi di entrambi: una rapina ad una gioielleria gestita da un' anziana signora e coperta da un' assicurazione. Un colpo senza vittime insomma, se non fosse che quella è la gioielleria dei loro genitori e che le cose non vanno mai come dovrebbero.
Su questi presupposti Lumet imbastisce un film lucido, compatto e nerissimo:
Lucido perché, nel raccontare le vicende dei due fratelli Handsome, Lumet intraprende un discorso più ampio rivolto ad una società (americana ma non solo) che ha perso di vista qualsiasi valore etico e morale.
Compatto grazie all' ottima sceneggiatura di Kelly Masterson ma anche grazie ad una struttura che, per quanto frammentaria (la storia è raccontata dal punto di vista dei vari personaggi attraverso flashback e flashforward) permette allo spettatore di non perdersi e di rimanere perfettamente "attaccato" al flusso narrativo.
Ma Onora il Padre e la Madre è anche un film nero, nerissimo (particolare evidenziato dalla livida fotografia) dove i legami di sangue sono avvelenati da rancori mai sanati, da ferite che il denaro non fa altro che infettare. Ed in un mondo governato dai soldi i protagonisti si agitano come nelle sabbie mobili cercando di tenere fuori la testa per respirare. Ma a nulla vale lo sforzo perché tutto ciò che fai non fa altro che accelerare la discesa.
Non si esagera definendolo uno dei migliori film del 2008.

Sunday, October 12, 2008

Lyric of the Week + Video / PROPELLERHEADS - HISTORY REPEATING (feat. SHIRLEY BASSEY)


The word is about, there's something evolving,
Whatever may come, the world keeps revolving
They say the next big thing is here,
That the revolution's near,
But to me it seems quite clear
That it's all just a little bit of history repeating

The newspapers shout a new style is growing,
But it don't know if it's coming or going,
There is fashion, there is fad
Some is good, some is bad
And the joke is rather sad,
That its all just a little bit of history repeating

.. and I've seen it before
.. and I'll see it again
.. yes I've seen it before
.. just little bits of history repeating

Some people don't dance, if they don't know who's singing,
Why ask your head, it's your hips that are swinging
Life's for us to enjoy
Woman, man, girl and boy,
Feel the pain, feel the joy
Aside set the little bits of history repeating

.. just little bits of history repeating
.. and I've seen it before
.. and I'll see it again
.. yes I've seen it before
.. just little bits of history repeating

Friday, October 10, 2008

Il Western secondo Miike

Dipenderà forse dalla grande attenzione che diversi cineasti occidentali e i Festival internazionali hanno verso di lui, ma non è difficile notare come negli ultimi anni i produttori nipponici abbiano iniziato a trovare particolare interesse nella figura di Takashi Miike, affidandogli sempre più progetti di una certa rilevanza commerciale. In casi del genere non è raro che un autore sacrifichi il suo genio a favore di incassi facili e decisamente elevati, fenomeno che Miike è riuscito ad arginare riuscendo in diversi casi (si vedano Zebraman, Great Yokai War e l'ultimo Crows Zero) a coniugare elementi di richiamo per il pubblico (soggetti particolarmente accattivanti e attori bellocci) con il suo stile inconfondibile, quasi una firma che toglie ogni dubbio su di chi sia la mano dietro la macchina da presa. Ora immaginate di unire gli elementi di poco sopra ad un soggetto tipicamente Western, anzi, un omaggio allo Spaghetti Western tutto italiano, unito con elementi storici del medioevo giapponese. Miscelate insieme riferimenti "shakespeariani", Quentin Tarantino ed otterrete Sukiyaki Western Django (chiaro riferimento al cult di Sergio Corbucci), che già dal titolo fa intuire una curiosa contaminazione di generi e culture cinematografiche ("Spaghetti" diventa "Sukiyaki" tipico piatto della tradizione culinaria giapponese). Il film si apre con un incipit apparentemente slegato dal resto (alcuni precedenti del regista potrebbero trarre in inganno) ambientato in una location palesemente finta (lo sfondo, il sole e il vulcano sono disegnati) dove un cowboy americano, Ringo, (interpretato da Quentin Tarantino) affronta alcuni banditi giapponesi e getta le basi per la narrazione della storia principale: in un tempo imprecisato, in un villaggio che potrebbe anche trovarsi in Giappone, una leggenda narra che la vi sia nascosto un tesoro in pepite d'oro. La voce gira velocemente e presto il villaggio viene invaso dai cercatori d'oro prima, e da due bande rivali, i Genji e gli Heike, poi. La lotta tra questi due gruppi dura ormai da secoli e il villaggio, diventato il nuovo centro dei loro scontri, sembra ormai perduto fino al giorno in cui arriva un cowboy straniero la cui straordianaria abilità fa gola ad entrambi. Chiunque riesca a portarlo dalla propria parte potrebbe avere in pugno le sorti dello scontro. Se da una parte la storia mostra il fianco a qualche possibile e giustificata critica (per quanto originale, la sconclusionatezza della trama fa subire al film alcuni cali di ritmo) non si può certo dire che Sukiyaki Western Django non sia un riuscitissimo e divertentissimo esperimento cinematografico: architetture tipicamente giapponesi unite ad elementi western, cowboy dall' anima samurai, uno sceriffo dalla due personalità in perenne conflitto, un' arma segreta nascosta in una cassa da morto, attori giapponesi che recitano in inglese (vi assicuro che si capisce chi lo sa parlare e chi recita a memoria), sono solo alcuni degli elementi che fanno di Sukiyaki Western Django un film difficile da etichettare ma impossibile da non apprezzare, se non altro per le citazioni e i riferimenti registici al genere Spaghetti Western e lo straordinario impatto visivo della pellicola che mostra il grado di maturità raggiunto da Miike. Assolutamente da recuperare per placare l'attesa del suo ormai imminente Yattaman.

Thursday, October 09, 2008

CINEBLOGGERS CONNECTION


Con mia grande sorpresa gli amici di CINEROOM, Para e Chimy, mi hanno invitato ad entrare a far parte della Cinebloggers Connection, sito dove i cineblog della rete convergono per esprimere il loro giudizio (con un chiaro e semplice sistema di votazione) sui film che escono in sala. Sito, tra l'altro, che ho il piacere di frequentare già da qualche tempo perché mostra in maniera piuttosto chiara il valore delle pellicole (ogni giudizio è soggettivo naturalmente, ma per lo meno ci si fa un' idea).
E' già un onore per me veder definito
WELTALL'S WOR(L)D un cineblog, immaginate quindi quanto mi riempia d'orgoglio entrare nella Connection ^___^.
Ringrazio perciò ancora una volta (già fatto nella
sede opportuna) Para e Chimy e i cineblogger che hanno approvato l'invito, Luciano, Ale55andra e Iggy.
Grazie a tutti ^__*

Wednesday, October 08, 2008

BORIS

TITOLO ORIGINALE: BORIS
NUMERO EPISODI: 14

-TRAMA-
La creazione della fiction TV "Gli Occhi del Cuore 2" tra gli scazzi personali e lavorativi di registi, direttori di produzione, della fotografia, tecnici, assistenti, attori e stagisti.

-COMMENTO-
Boris è una serie geniale!
Considerata la scarsissima stima che provo nei confronti delle produzioni nostrane, trovarmi a definirla in questo modo significa che questa serie se lo merita al 100%. I nostri palinsesti sono affollati da prodotti seriali italiani brutti, ridicoli, che pescano a piene mani delle ben più riuscite serie americane senza riuscire a tirar fuori qualcosa di buono o una benché minima idea originale. Serie che comunque vengono seguite dall' assuefatto pubblico televisivo e perciò si riciclano anno dopo anno. Mentre Rai e Mediaset continuano a propinarci serial sulle forze dell'ordine o mini serie di scarso interesse, è la Fox Italia (canale a pagamento del pacchetto Sky) a produrre questo piccolo gioiello televisivo. Quando ci si trova di fronte ad una serie come Boris è giusto quindi darle tutti i meriti che si è guadagnata, soprattutto se il serial in questione è ambientata proprio "dietro le quinte" di una fittizia fiction/trash italiana.
Nonostante si tratti di una serie comica che "attacca" con una satira feroce il mondo, davanti e dietro la telecamera, delle produzioni televisive a basso costo, è impossibile non immaginare come vere alcune delle situazioni paradossali che si vengono a creare sul set di Occhi del Cuore e che vedono coinvolti la moltitudine di persone che ci lavorano: c'è il regista (l' ormai mitico René Ferretti) costretto a soffocare i suoi virtuosismi registici per adeguarsi al profilo low-budget delle produzioni televisive, facendo le cose alla "cazzo di cane" pur di girare il più possibile e portare a casa la giornata. C'è un direttore della fotografia cocainomane e un direttore di produzione votato al risparmio di ogni singolo centesimo. C'è un' algida assistente alla regia (la grande Caterina Guzzanti) e stagisti ridotti in schiavitù. C'è un attore vanesio ed un' attrice cagna. Poi naturalmente c'è Boris, pesciolino rosso portafortuna del regista, che muto da dentro la sua boccia di vetro assiste a tutto ciò che capita nel set di Occhi del Cuore 2.  
E in queste quattordici puntate da mezz'ora (circa) ciascuna, Boris riflette ciò che la televisione è diventata: si punta alla quantità più che alla qualità e se il pubblico premia queste scelte con gli ascolti, perché cambiare questa politica? Insomma, tra una risata e l'altra (e vi assicuro che si ride) si riflette su come il mezzo mass mediatico più diffuso sia diventato un ricettacolo di format da comprare e da vendere all'estero.
Da recuperare e vedere senza pensarci un secondo di più.

-DVD-
Produttore: Mondo Home Entertainment
Distributore: Mondo Home entertainment
Video: 1.66:1 letterbox
Audio: Italiano Dolby Digital 2.0
Sottotitoli: n.d.
Extra: Backstage
Regione: 2 Italia
Confezione: digipack

Tuesday, October 07, 2008

Quando oltre alle Regole manca anche tutto il resto del film...

I Detective Turk e Rooster sono una affiatata coppia di poliziotti che, per mandare in galera l'assassino di una bambina, scagionato dalla testimonianza della madre della piccola, diventano complici nel "produrre" delle prove incriminanti a suo carico. Anni più tardi si trovano ancora insieme ad indagare su di un serial killer che uccide i criminali lasciando di fianco al cadavere, l'arma del delitto ed una poesia. Mentre le indagini proseguono appare sempre più evidente che l' assassino possa essere proprio un poliziotto e i sospetti non tardano a cadere sul Detective Turk, considerati i rapporti che lo legano con alcune delle vittime. Sfida senza Regole, titolo che già di per se fa ribrezzo, (adattamento dall' originale Righteus Kill) più che un film è un gigantesco specchietto per le allodole che non riesce ad andar oltre (per demeriti del cast tecnico e artistico) lo scontento e l' irritazione dello spettatore. I timori cominciano a partire dalla fase promozionale del film perchè, quando i nomi degli attori vengono prima del nome del regista, già si avverte odore di fregatura (per non dire di merda) ancor prima che la pellicola arrivi nelle sale. Sfida senza Regole è stato sbandierato come il film dove la coppia Robert DeNiro - Al Pacino tornava a recitare insieme dopo filmoni come Heat e Il Padrino Parte II. Forse qualcuno avrebbe dovuto fermarsi a pensare al fatto che i due attori sono avanti negli anni e già da tempo faticano (DeNiro più di Pacino) a sposare progetti di qualità. Anche qui la loro prova è del tutto anomima e i personaggi che si trovano a rappresentare sono copie sbiadite dei characters che gli hanno resi famosi. Fatto sta che questi due grossi nomi riescono a far piombare il regista Jon Avnet nell' oblio e lui non fa niente per ritagliarsi il giusto spazio dovuto a chi sta dietro la macchina da presa. Certo, il buon Jon non è Micheal Mann ne Francis Ford Coppola, ma da qui alla nullità assoluta ce ne passa: Avnet mette insieme un'ora e mezza di riprese senza riuscire a azzeccare un' inquadratura od una scena che valga la pena di essere ricordata (se si esclude quella della morte di 50 Cent che vola da una finestra neanche fosse un foglio di carta velina). Neanche il confronto finale si salva perchè, a quel punto, il pathos ha ceduto da tempo il posto ad una gran voglia di martellarsi le gengive. la sceneggiatura di Russel Gerwitz non aiuta di certo tanto è piatta e priva di qualsiasi mordente: trama risaputa, risvolti scontati e un colpo di scena telefonato già da prima di metà film. Veramente difficile trovare qualcosa che possa salvare anche di un pochino questo film e per dovere d' obiettività potrei anche provarci ma...no, non ci riesco. Questo Sfida senza Regole è troppo brutto e non ne ho proprio voglia.

Monday, October 06, 2008

"Semplicemente, ti amo" e 'sti cazzi!

Guardare un film del genere Jun-ai (vero amore) è come buttarsi da un grattacielo sapendo di atterrare su di una fabbrica di materassi: lo si affronta con la sicurezza di sapere perfettamente cosa ci si troverà davanti, come si svilupperanno gli eventi, senza troppe sorprese e riuscendo ad anticipare in alcuni casi i comportamenti dei personaggi. Questo perché gli script di questo genere si muovono su binari ben collaudati che comunque funzionano, nonostante possano far apparire questi film tutti uguali e monotoni. Lo schema è quasi sempre il seguente: storia in bilico tra l'adolescenza e l'età adulta dei personaggi, magari si va avanti e indietro grazie a dei flashback che tengono all' oscuro lo spettatore sulla risoluzione della storia fino alla fine del film. Personaggi collaudati: lui, bruttino, idiota e negli occhi quell' espressione fissa tipica dell' ottuso. Di buon cuore, si innamora della controparte femminile senza mai riuscire a confessare i suoi sentimenti. Lei, molto carina oppure carina che però si sente brutta. Di solito fa lei la prima mossa perché, come dicevo prima, lui è un' idiota che risponde ad ogni cosa che gli si dice con un "Eh?" o al massimo con un "Uh?". Naturalmente possono esserci due lui e una lei o viceversa, in modo da creare il solito triangolo che porta con se malintesi ed equivoci. Poi c'è la malattia: la malattia colpisce sempre lei ed è di quelle rarissime ed incurabili che verranno tenute nascoste a lui che, povero sfigato, si ritroverà ben presto con una fidanzata morta senza neanche averle dato un bacio. Ed ecco un altro punto fondamentale di questi film, il bacio: in questo genere (e sembra veramente un controsenso) i personaggi non si danno quasi mai un bacio. Perché? Vorrei tanto saperlo anche io. Heavenly Forest rientra perfettamente in questo schema: il film si apre con il protagonista, Makoto, a New York per assistere alla mostra fotografica dell' amica Shizuru. Flashback di un paio d'anni e ritroviamo Makoto matricola all' università ossessionato all' idea di puzzare a causa di una pomata che è costretto a mettersi su di uno sfogo che ha sul fianco. Ad un attraversamento pedonale conosce Shizuru, ragazza molto particolare che sembra molto più piccola rispetto alla sua vera età. Soffre inoltre di una rinite cronica e perciò, con l'olfatto limitato, Makoto non ha problemi a starle vicino. Diventano amici, iniziano a condividere la passione per la fotografia e Shizuru non nasconde i suoi sentimenti verso il ragazzo che però è molto attratto da Miyuki, ragazza molto bella che termina ogni frase con un sorriso e che tiene alto il suo livello culturale leggendo riviste di abiti da sposa durante le lezioni universitarie. Come si evolverà il triangolo? Chi sceglierà il povero Makoto? La bruttina (per modo di dire) ma simpatica Shizuru o la gnoccolona con l' intelligenza di una tegola, Miyuki? Ma al di la della scelta (che scoprirete solo guardando il film) pensate forse che il destino non ci metterà lo zampino? Come potete vedere Heavenly Forest rispetta tutte le regole del perfetto Jun-ai e anche se non vorrete vi farà commuovere perché da questo punto di vista questi film sono infidi e bastardi. Ma come ho già ripetuto diverse volte, guardo con piacere queste pellicole anche perché vengono confezionate sempre con estrema cura e girati in posti meravigliosi che trasmettono tutto il fascino di quella terra così magica e lontana (almeno per noi occidentali) che è il Giappone. Consigliato a tutti i romanticoni senza troppe pretese.

Sunday, October 05, 2008

Lyric of the Week + Video / RADIOHEAD - RECKONER

**Video di Clement Picon vincitore del contest per selezionare il nuovo video ufficiale dei Radiohead**


Reckoner
Can you take it with you
Disavow the pleasure

You were not to blame for
Bittersweet distractors
Dare not speak his name
Did I cater to all you
All your needs?

Because we separate
it ripples our reflections
Because we separate
it ripples our reflections

Reckoner

Did I cater to all you
All your needs?

Friday, October 03, 2008

A closer look to these japanese stuff - 02 -

Se non leggete il blog Nicola in Giappone (che state aspettando?) allora non saprete neanche che il buon Nick, per ampliare la sua conoscenza nipponica, si è recato durante la seconda metà dell' agosto scorso, per la seconda volta nella sua vita nella Terra del Sol Levante. Come per il primo viaggio, in tasca aveva anche una simpatica lista da me redatta contenente alcuna cose sfiziose che mi avrebbe fatto immenso piacere se le avesse cercate per me. Bé, punto per punto gli oggetti in lista sono stati smarcati e in aggiunta ho avuto anche due graditissimi regali.
Ora vi mostro il tutto:

Ecco gli oggetti del desiderio fotografati tutti insieme. Vediamo nel dettaglio:

Il singolo giapponese di Let There Be Love. Potrà sembrare poco interessante ma...è un pezzo per collezionisti, fidatevi ^__*

Pensavate forse che non mi sarei fatto cercare qualche bel dvd da aggiungere alla mia videoteca? Ecco il primo, Water Boys, simpatica commedia che vede alcuni studenti sfigati trovare il giusto riscatto mettendo insieme una squadra di nuoto sincronizzato.

Glory to the Filmmaker, discusso film di Kitano e da me ancora non digerito. Preso per dovere di collezione.

Il FILM di Hideaki Anno. Ritual è un film da vedere assolutamente!!!

Veniamo ora ai regali: durante la sua permanenza in Giappone, Nick ha avuto la fortuna di visitare una mostra dello Studio Ghibli e quello che vedete è il libro(ne) stampato per l'occasione, dedicato ai layout dei film dello studio fondato da Miyazaki. Bellissimo!!!

All'interno della mostra c'era anche uno store nel quale Nick ha trovato l'artbook di uno dei film più belli del MAESTRO: Totoro (con tanto di fascetta dedicata a Ponyo)!!!

Thursday, October 02, 2008

Una famiglia tranquilla e lo Yakuza indemoniato

A seguito del licenziamento del capo famiglia, i Kang decidono di trasferirsi in una casa in montagna e di avviare un' attività alberghiera convinti anche dal fatto che da li a pochi giorni sarebbero iniziati i lavori per una nuova autostrada che avrebbe sicuramente facilitato l'arrivo dei turisti. Ma a distanza di settimane, dei lavori neppure l'ombra e gli affari per la famiglia Kang non decollano. Quando il loro primo cliente si suicida nella propria camera, la famiglia si trova di fronte ad una scelta: denunciare il fatto alla polizia e chiudere definitivamente l' albergo o nascondere il cadavere facendo finta che nulla sia successo. Ma quello sarà solo il primo di una serie di avvenimenti che porterà la famiglia Kang ad avere più cadaveri da occultare che clienti e a diventare piuttosto esperti nello sbarazzarsi dei corpi o di chi viene sfortunatamente a conoscenza del loro segreto. Nell' ormai lontano 1998 Kim Ji-woon esordiva con un film scritto e diretto da lui stesso, The Quiet Family, una divertente commedia nera sul "fare di necessità virtù" cosa che per i membri della famiglia Kang diventa una questione di sopravvivenza. I tentativi maldestri (dai risvolti spesso macabri) di far funzionare l'albergo regalano qualche sincera risata e ci si ricorda con un sorriso soprattutto delle performance dei grandi Choi Min-sik e Song Kang-ho. Alcuni personaggi rimangono misteriosamente marginali e le situazioni si ripetono un po' troppo, diventando quasi monotone e facendo sorgere il dubbio che il film non sappia dove andare a parare. Anche tecnicamente siamo lontani dai suoi film successivi (Tale of Two Sisters e A Bittersweet Life) dove ha sicuramente dimostrato maggiore maturità registica e sceneggiativa. Metterlo in confronto diretto con il suo remake, Happiness of the Katakuris di Miike, non sarebbe molto corretto anche perché il geniaccio giapponese ha preso il soggetto di Ji-woon e ne ha colmato tutte le lacune partorendo un vero gioiellino. Meglio quindi approcciarsi a questo The Quiet Family lasciando da parte i Katakuris e godersi senza troppe aspettative questa piccola opera d'esordio.

Quando dei membri della gigantesca organizzazione malavitosa Heaven uccidono due uomini della famiglia Ida la guerra tra clan diventa inevitabile. I vertici della famiglia chiedono al boss Muto di spartire con la famiglia i proventi per la vendita di armi e finanziare così la guerra. Muto però ha usato quei soldi per curare la moglie malata e pertanto si offre di uccidere con le sue mani il boss del' organizzazione Heaven. Seiji, sottoposto di Muto e a lui profondamente legato, per evitare che il suo boss rischi inutilmente la vita lo fa arrestare decidendo di occuparsi direttamente dell' organizzazione Heaven, rubando i loro soldi e ferendo a morte il loro boss. A quel punto Seiji e tutti quelli che gli stanno vicino diverranno bersagli della violenta rappresaglia della società Heaven. Esaminando la sterminata filmografia del prolifico Takashi Miike non si può certo dire che non abbia esplorato e sviscerato a dovere la tematica Yakuza, anzi, in qualche modo sono sempre presenti in quasi tutti i suoi film dei precisi richiami al genere. Non si può dire altresì che il sottoscritto non apprezzi e non trovi affascinate il mondo (cinematografico) della malavita giapponese anche quando Miike trattiene più che può i suoi istinti geniali regalandoci pellicole uniche come Agitator o Graveyard of Honour. In questo Kikoku - Yakuza Demon il regista giapponese evita gli "eccessi" che contraddistinguono il suo cinema per raccontare una storia Yakuza classica, mettendo in evidenza il lato romantico dei suoi anti-eroi e dei rapporti di fedeltà e onore che legano tra loro i boss ai sottoposti, i membri più giovani ai loro "aniki", e come le loro vite siano tragicamente segnate dal sangue e dalla morte. Un film un po' discontinuo che però regala dei momenti splendidi (in particolar modo, l'incipit e la conclusione) e l'ennesima interpretazione di Riki Takeuchi che, neanche ci fosse bisogno di dirlo, spacca il culo a tutti.