Nel giudicare Django Unchained si rischia di incappare in tre errori madornali che sarebbe meglio evitare. Il primo: aspettarsi un film superiore a Bastardi Senza Gloria, perchè a conti fatti non lo è. E questo non è necessariamente un difetto anche perchè era difficilmente auspicabile che il Maestro raggiungesse le vette del suo progetto precedente. Ci si avvicina ma rimane comunque indietro. Il secondo: giudicare il film prima di averlo visto. E' vero che le opinioni di pubblico e critica su Tarantino sono belle consolidate, ma il pregiudizio è una pratica che sarebbe meglio lasciare a certi registi presuntuosi. Il terzo: cercare di etichettare il film. Perchè, da che mondo è mondo, le più comuni definizioni di genere vanno strettissime ai film del buon Quentin, generalmente sempre troppo grossi e strabordanti per poter essere inclusi in qualsivoglia categoria (e "tarantiniano" non è una categoria ma una bestemmia). Questo perchè il cinema di Tarantino è una creatura famelica che si nutre della stessa materia di cui è fatta, crescendo e trasformandosi in qualcosa di nuovo, unico e (fino ad oggi) a prova d' imitazione. Così, come Bastardi Senza Gloria nasceva da Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari fino a diventare una riscrivere la fine della Seconda Guerra Mondiale, Django Unchained parte dallo spaghetti western di Sergio Corbucci, dal quale poi si "limita" a prendere il nome del protagonista ed il tema musicale principale, trasformando il leggendario pistolero interpretato a suo tempo da Franco Nero, in uno schiavo di colore venduto e separato dalla moglie dopo aver tentato invano la fuga dalla piantagione dove lavoravano. Liberato da un ex dentista, ora cacciatore di taglie, di origine tedesca, Django si unisce a quest' ultimo con il quale escogita un piano per liberare la moglie dalla proprietà di Calvin Candie, negriero appassionato di combattimenti tra mandingo. Più che un western all' italiana, comunque omaggiato in maniera più o meno diretta, ci troviamo immersi in una rievocazione storica che abbraccia la blaxploitation per raccontare una storia di schiavitù e vendetta nel profondo sud degli Stati Uniti. Il resto, e non è poco considerata la durata di quasi tre ore, è puro cinema di Tarantino, dalla scelta della colonna sonora (a volte in apparente contrasto con le atmosfere del film) ad una precisa direzione d' attori ai quali riesce ad incollare addosso i personaggi ed i dialoghi che scrive. Qui, al solito, son tutti perfetti: dal Django di Jamie Fox al Dott. King Schulz di un immenso Christoph Waltz. Dal Calvin Candie di Leonardo Di Caprio al "negro di casa" di Samuel L. Jackson, vero personaggio infido e negativo del film. E se son tante la sequenza memorabili (quella del Ku-Klux Klan è già cult) Tarantino da sempre il meglio di se quando prende i suoi personaggi e li chiude in una stanza, magari seduti intorno ad un tavolo, inonda lo spettatore con fiumi di parole e costruisce la tensione con l' attesa di un climax che esplode anche con violenza. Ed è proprio la violenza a tenere banco quando si tratta di Tarantino, e se il sangue scorre a fiumi, letteralmente, è altrettanto vero che tutto è perfettamente bilanciato da una precisa e puntuale vena ironica. Django Unchained, insomma, non è un film che si presta a compromessi di sorta, che può portare i detrattori ad una fulminazione sulla via di Damasco o gli estimatori ad un improvviso rigetto. E' un cinema che ormai si ama o si odia. Prendere o lasciare. Noi prendiamo, a piene mani.
Recensione già pubblicata su CINE20.
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