Curioso caso cinematografico quello di The Artist di Michel Hazanavicius, sempre in bilico tra operazione nostalgica e gioco cinefilo, un film che si scardina volontariamente da qualsiasi contesto o linguaggio moderno per trasportarci nella Hollywood di fine anni '20 dove l' epoca del cinema muto si avviava verso un rapido tramonto a favore del cinema sonoro. Protagonisti di questo momento di passaggio sono due attori, George Valentine, star del muto, e la stella nascente Peppi Miller che si incontrano / scontrano casulmente, si piacciono ma che il destino terrà separati sia sentimentalmente che artisticamente. Valentine infatti, non è soltanto un uomo non tanto felicemente sposato, ma anche attore guidato da un forte orgoglio che gli impedisce di accettare un cambiamento così radicale nel mestiere che tanta fortuna gli ha portato fino a quel momento. Non è difficile comprendere come e perchè l' Academy abbia perso completamente la testa per un film che rievoca atmosfere hollywoodiane di un' era che sembra così lontana, ma quel che risulta davvero difficile è stabilire fin dove possa arrivare la portata di un progetto certamente unico ma che appare però troppo fine a se stesso. Tanto la recitazione, che toglie le parole in favore della sola espressività (straordinari in questo senso Jean Dujardin e Berenice Bejo), quanto l' utilizzo degli intertitoli, la regia, la fotografia, sembrano tutti mirati ad una riproduzioni fedele della sintassi del cinema muto e solo in pochi e incisivi momenti (la sequenza onirica dove i rumori invadono il silenzio, e quella finale) il film si scuote da questa "ricostruzione storica" che piace, diverte, sfiora il cuore (la bella scena nel camerino con la manica della giacca) senza, ahime, trafiggerlo mai.
Recensione già pubblicata su CINE20.
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