Ci sono film la cui importanza si manifesta ancora prima della loro uscita. Film come Gravity di Alfonso Cuaron, ad esempio, che fanno parlare di se fin dalla scelta del cast e per i quali si arriva addirittura a scomodare il Maestro ed il suo 2001 Odissea Nello Spazio. Per quanto Cuaron sia uno che, come già dimostrato ne I Figli degli Uomini, da una grande importanza alla tecnica di regia, il paragone con il capolavoro di Kubrik arriva sopratutto da un punto di vista delle suggestioni trasmesse nel rappresentare e raccontare lo spazio come se fosse davvero l' ultima frontiera, immensa ed affascinante e, allo stesso tempo, pericolosa e terrificante. Nel raccontare la storia di due astronauti abbandonati alla deriva nell'orbita terrestre dopo che il loro shuttle viene gravemente danneggiato dai detriti di un satellite russo, il regista messicano, accompagnato nella sceneggiatura dal figlio Juan, mette l' uomo nella giusta prospettiva nei confronti dell' immensità dello spazio dove, la convinzione della conquista si scontra con la realizzazione di essere una particella infinitesimale nell'infinito, ospite indesiderato in un ambiente ostile nel quale tutto diventa una lotta per la sopravvivenza: Gravity, nel suo strato più superficiale, racconta proprio questo tipo di lotta con un incedere incalzante e tesissimo dove la regia di Cuaron coglie sia la soffocante angustia degli spazi chiusi che la disorientante grandezza della spazio. Il maestoso (e lungo) piano sequenza iniziale, ma anche la spettacolare distruzione dell' ISS, danno l' idea di quello che il regista è riuscito a concepire nella lunga e travagliata produzione del film, una ricerca formale straordinariamente coerente nei movimenti di macchina e nella costruzione sonora di ogni sequenza. Forse solo nel finale ci si abbandona e soluzioni più semplici, difetto che si riscontra anche in una scrittura che spesso sgomita per elargire dettagli sul passato dei protagonisti che forse potevano essere appena accennati senza per questo privarli del giusto spessore. La scelta di essere così diretti (figlia di tanto, troppo, cinema da grande pubblico) smorza l' impatto con la parte più simbolica di Gravity: il dramma attuale della dottoressa Ryan, una sorprendente Sandra Bullock, diventa modo per elaborare un dramma passato. Lo spazio funge quasi da grembo materno, il cui vuoto avvolge come liquido amniotico, e la Terra diventa il luogo nel quale rinascere a nuova vita.
Recensione già pubblicata su CINE20.
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