Undicesimi a pari merito ed in ordine rigorosamente sparso:
The Town
Il Discorso del Re
Never Let Me Go
Poetry
Lo Stravagante Mondo di Greenberg
The Housemaid
Four Lions
Yattaman
TITOLO ORIGINALE: GAMES OF THRONES
Accade fin troppo spesso che quando il cinema di genere italiano sembra alzare finalmente la testa, subito arriva qualcuno che gliela ricaccia giù nel fango. Ed è curiosamente dal fango che riparte, nell' incipit del film d'esordio di Cosimo Alemà dove due loschi figuri trafficano con alcune mine antiuomo, piccolo antipasto di quel che accadrà. Quasi seguendo il percorso intrapreso da Zampaglione per il suo Shadow, anche Alemà porta il suo At The End of The Day in giro per i festival prima di distribuirlo ufficialmente in Italia, una scelta che ha permesso al regista ed al film di farsi conoscere, ma anche di dare un segnale importante al mercato estero sempre molto attento ad un certo tipo di produzioni cinematografiche italiane. Attenzione a conti fatti ben riposta anche se, a voler essere obiettivi, il film di Alemà è tutt'altro che perfetto ed il punto debole è facilmente identificabile in una sceneggiatura che riduce al minimo tutto ciò che ruota intorno ai personaggi (background o qualsiasi tipo di approfondimento) ed intorno alla storia non lasciando tanto spazio per qualsivoglia lettura di sottotesti sociali (è pur sempre della naturale inclinazione dell' uomo per la guerra e la violenza di cui si parla). At The End of The Day va subito al sodo trasformando una domenica qualsiasi, in cui un gruppo di amici si inoltra tra i ruderi di una vecchia prigione militare per giocare a soft-air, in una spietata lotta per la sopravvivenza quando un gruppo di fanatici ex militari decide di dargli la caccia. Ne risulta un thriller serrato e implacabile, "confezionato" tra l'altro in maniera davvero convincente sia nel comparto regia / montaggio che in quello della colonna sonora, quest' ultima in particolar modo davvero degna di nota. In definitiva, valgono le stesse considerazioni per il film di Zampaglione: un segnale di lenta (lentissima) ripresa ben lontano da quella auspicata rinascita che in tanti aspettano ma è già qualcosa potersi lasciare andare ad un po' di cauto entusiasmo per una volta.
Brad Anderson è tra le altre cose regista de L' Uomo Senza Sonno, un film dove si affrontavano tematiche quali il rimosso ed il senso di colpa, in un viaggio allucinato tra sogno e realtà il cui protagonista assoluto era uno scheletrico ma bravissimo Christina Bale. Vanishing on 7th Street è tutta un' altra cosa: primo perchè non c'è un attorone come Bale ma il ben più modesto Hayden Christensen, secondo perchè pecca pesantemente in originalità male che, purtroppo, colpisce gran parte del cinema horror odierno. Il film si apre in un multiplex dove un proiezionista, tra un cambio di pizza e l'altro si dedica a letture culturali. All' improvviso le luci si spengono ed insieme all' elettricità scompaiono anche tutte le persone delle quali rimangono in terra solo i vestiti. L' evento non è circoscritto solo al cinema ma a tutto il mondo, immerso in un' oscurità minacciosa che sta giorno dopo giorno riducendo anche la presenza della luce solare. L' atavica paura del buio è certamente un punto di partenza anche convincente per il film di Anderson che punta fin dalla prima sequenza a creare una certa tensione con un' atmosfera apocalittica che ricorda un po' Io Sono Leggenda e molto lo Shyamalan di E Venne il Giorno. I problemi nascono quando questo pescare a destra e a manca non riesce più a coprire il fatto che Vanishing on 7th Street non sa dove andare a parare con il suo smarrito manipolo di superstiti che si arrovellano tra teorie religiose, dilemmi esistenziali e tanta retorica. Il buio cos'è, cosa rappresenta? La fine o un nuovo inizio? Le risposte non arriveranno ne si avrà voglia di cercarle a visione ultimata dove ci si chiederà più che altro perchè insistere nell' animare l' oscurità con ombre e sagome utilizzando una computer grafica neanche tanto ben "integrata" con il resto. Il buio, caro Anderson, è già abbastanza spaventoso ed inquietante di per se.

TITOLO ORIGINALE: CALIFORNICATION
Da Iron Man a Captain America. Ci sono voluti tre anni per portare a compimento la lunga preparazione al film dei Vendicatori, tre lunghi anni e cinque film che nonostante la qualità altalenante (ma mai sotto la sufficienza) hanno dimostrato la volontà dei Marvel Studios di portare sullo schermo delle versioni quanto mai fedeli dei loro famosi personaggi cartacei. Superato l' ostacolo Thor si poteva pensare che fosse tutta discesa ma a tutti gli effetti anche Captain America si è rivelata una sfida con dei rischi non da poco, soprattutto considerato che: 1) il personaggio creato da Joe Simon e Jack Kirby si è inserito nell' immaginario con un costume che, tra i colori sgargianti della bandiera americana e le ali ai lati del copricapo, non risulta particolarmente accattivante. 2) l' ostentato patriottismo di cui il personaggio si fa simbolo l' ha reso anche un po' antipatico soprattutto perchè appare un atteggiamento fuori luogo e fuori contesto. Se nei fumetti si è largamente provveduto a svecchiare e a reinventare il personaggio, come procedere per la sua controparte cinematografica? Avendo un intero film a disposizione si è optato per la migliore soluzione possibile narrando le origini di Captain America e ambientando il film negli anni '40 durante la Seconda Guerra Mondiale. Il film riesce a centrare in pieno il cuore del personaggio identificando nel mingherlino Steve Rogers il tipico americano medio desideroso di dare il proprio contributo in un momento particolarmente delicato per il suo Paese, e nel suo alter-ego un simbolo al quale ispirarsi e sotto il quale raccogliersi nella lotta contro i nazisti (sia come propaganda che attivamente sul campo di battaglia). Sfortunatamente Captain America manca l' obiettivo quando si tratta di adempiere ai propri doveri di action-movie relegando gran parte delle gesta di Cap e del suo scudo alla seconda parte del film (forse anche qualcosina di meno) in una serie di sequenze più adatte ad un trailer che ad un lungometraggio. Ma anche quel poco purtroppo non è valorizzato dal regista Joe Johnston che si conferma ancora una volta un semplice mestierante nonché una delle scelte più infelici fatte fino ad ora dai Marvel Studios. Ma la figura di Cap che emerge è solida, storicamente coerente e fortunatamente salva il film da un clamoroso autogol proprio nel momento in cui si passa ufficiale il testimone a Whedon e ai suoi Vendicatori.
C'è un termine, che si usa sopratutto in ambito di anime e manga giapponesi, ed è "fan service" ad indicare la particolare attenzione riservata ad alcuni particolari, anche totalmente estranei al contenuto o alla storia, ma che strizzano l' occhio a questo o a quel determinato tipo di audience. Per il pubblico maschile ad esempio, si indugia in generose scollature o sulle forme femminili disegnate da succinti costumi o, ancora, frammenti di biancheria intima che compaiono sotto una gonna sollevata dal vento. Ora si prenda tutto questo e lo si applichi a Bitch Slap il film di Rick Jacobson: qui ci troviamo di fronte a del "fan service" a tutto tondo (ci si spinge anche un po' più in la a dir la verità, ma son tutte promesse che si risolvono in un nulla di fatto) senza la minima parvenza di qualsivoglia contenuto e tanto meno di una storia da seguire. Per la verità, la struttura a flashback sembra voler sottolineare che esiste una storyline e che pertanto c'è un valido motivo se tre ragazze massacrano un tizio in mezzo al deserto e poi iniziano a scavare alla ricerca di chissà cosa. Ma cosa? E soprattutto, ci importa davvero saperlo? Non credo. Anche perchè basta poco per capire che il film, da qualsiasi parte lo si voglia prendere, ha davvero poco da offrire, a partire da una regia che non si spinge oltre dei precisi splitscreen dedicati ai particolari anatomici delle protagoniste. Bitch Slap fa della pochezza la sua bandiera e ce la sventola con orgoglio davanti alla faccia al punto che, quando le tre protagoniste si bagnano tutte (letteralmente) neanche ti chiedi da dove saltino fuori tutti quei secchi pieni d'acqua. Fondamentalmente ce n'è abbastanza per renderlo un film da ignorare se non fosse che fa il possibile per rendersi irritante, avendo la presunzione di omaggiare un certo tipo di cinema (c'è Corman, Meyer, il grindhousediocenescapi e, ahinoi, anche Tarantino) rifacendosi a figure femminili cazzute (i titoli di testa sono li a sottolinearlo) di cui qui troviamo però una pallida parodia rivolta ad un pubblico prettamente maschile. Ma anche loro faranno fatica a capire per cosa hanno pagato il biglietto quando su internet c'è tanta roba gratis.