
Ecco il secondo frame:

Ed ecco il terzo frame che spazza via ogni dubbio:

Soluzione: ICHI THE KILLER
Vincitore: Beld
Classifica:
Grace - pt. 5
Beld - pt. 3
Michele - pt. 1



Specchi posti uno di fronte all'altro. Riflessi infiniti, infinite possibilità. False prospettive, paradossi. Sovrapposizioni di realtà e leggi della fisica. Unità di tempo dilatate all' infinito in cui è possibile perdersi. Con Inception Christopher Nolan rende il sogno qualcosa di tangibile eppure estremamente malleabile, restituendo allo spettatore i più classici "cortocircuiti sensoriali" (un ambiente familiare nel quale sono presenti elementi estranei o fuori contesto), stratificando il piano onirico in infiniti livelli rendendo sottilissimo il confine tra realtà e sogno, così come l' atto di creazione del sogno stesso, portato avanti da Cobb e la sua banda con lo scopo di rubare idee direttamente dalla mente delle loro vittime, rende quasi invisibile il confine con l' atto di creare il cinema, approfondendo in maniera netta ed inequivocabile un discorso cominciato con l' ottimo The Prestige. Un parallelo che si ritrova più volte nel film ad esempio, allo stesso modo in cui il subconscio del sognatore popola il sogno, Nolan popola Inception (in maniera decisamente più conscia) di elementi che ritornano nella sua filmografia quasi fossero state prove generali per questa sua ultima fatica (la sensazione di smarrimento che prova chi si accorge di essere in un sogno ricorda quella che prova il protagonista di Memento dopo i "reset" della sua memoria recente) ma rappresentano più che altro un preciso filo conduttore di tematiche care al regista: il protagonista guidato nelle azioni da un' ossessione di cui è soprattutto vittima, la perdita, il senso di colpa e la ricerca di redenzione. Un percorso cominciato con Following e che pellicola dopo pellicola ha portato il giovane regista inglese a trovare il giusto compromesso tra il "suo" cinema e quello "mainstream". La riprova arriva proprio con Inception che, al di la di qualsiasi approfondimento si voglia cercare nelle sue immagini, si presenta al pubblico come un thriller sci-fi dalla struttura solidissima, labirintica, sorretta da una regia che riesce a valorizzare le sequenze d'azione, tanto quelle più blasonate e particolari (la stanza che gira) che quelle più "canoniche" (l' inseguimento a Monbasa), un cast perfetto ed una colonna sonora dove Hans Zimmer da proprio il meglio di se. La maturità di Nolan permette insomma ad Inception di essere un film cervellotico ma non compiaciuto, aperto a svariati piani di riflessione e allo stesso tempo un enorme spettacolo cinematografico. Una pellicola che si apre ad una fetta di pubblico molto ampia e sta ad ognuno decidere fino a dove spingersi, fermarsi in superficie o andare in fondo. Scegliere il sogno o la realtà. La trottola gira, la trottola si ferma.
La visione di Ong Bak 3 mette sotto tutta un' altra luce i problemi produttivi intercorsi durante la realizzazione del secondo capitolo firmato Jaa/Rittikrai, che a quel tempo avevano assunto quasi carattere di leggenda. Ong Bak 2 era diventato infatti il film dove il regista/attore/action coreographer Tony Jaa, era scappato durante la produzione del film diventando un eremita nella giungla per alcune settimane. Risultato? Nonostante una storia "così, così" ed un finale apertissimo ai limiti dell' accettabile, il film era una goduria grazie ad una cura tecnica al di sopra della media e alle sequenze di combattimento lunghe, belle con coreografie da applausi. La crisi mistica o esaurimento nervoso, fate un po' voi, avuto da Tony Jaa, con Ong Bak 3 perde quell' aura leggendaria per definirsi, in maniera ben più chiara e lucida, come un grosso incidente di percorso che, se in Ong Bak 2 è stato efficacemente coperto, nel seguito mostra tutti i suoi più nefasti effetti collaterali. A voler essere proprio cattivi si potrebbe dire che il film sia stato messo insieme con gli scarti del secondo, ma siccome a questi film e al personaggio Tony Jaa si vuole un gran bene, diciamo che Ong Bak 3 sembra quasi il finale che manca ad Ong Bak 2 ma allungato all' inverosimile per arrivare alla durata di un lungometraggio. Tanto per fare un esempio, il protagonista, Tien, passa circa l' 80% del film in una fase tra il recupero fisico e la crisi mistica (che la fuga di Tony sia stata una scusa per lavorare sul personaggio? Naaaaaa), il resto sono i deliri allucinati dell' imperatore (il villain di Ong Bak 2) e l' uomo-corvo che qui si ritaglia un ruolo da protagonista (e da personaggio più riuscito del film). I combattimenti ci sono naturalmente, ma sembrano quasi delle prove rispetto a quanto già visto, non si è fatto nessun passo in avanti ma uno di lato sbilanciato all' indietro ed è forse questa la cosa più difficile da accettare: perchè si può tollerare una storia enigmatica che si tiene insieme con lo sputo, ma che le sequenze di lotta non diano allo spettatore la soddisfazione che va cercando in questi film, questo proprio no. E insomma, quello che è giusto è giusto.



Un fatto di cronaca nera realmente accaduto diventa attraverso il cinema, motivo per raccontare il lento percorso, o caduta, nella follia (?) di un giovane che lo conduce fino all' uccidere la madre trafiggendola con una spada. Quello che idealmente poteva rappresentare il climax della narrazione, qui Herzog lo usa come base di partenza per ricostruire, attraverso frammenti e ricordi, la figura di Brad McCallum (un Michael Shannon in stato di grazia), regista/attore della sua personalissima versione dell' Elettra di Sofocle che si svolge in un assolata via di un quartiere residenziale di San Diego sotto gli occhi di inconsapevoli attori ed attrici, mentre la sua voce tira le fila "dietro le quinte" di casa sua. Tutti recitano la loro parte anche quelli, come la fidanzata o il regista teatrale, che aiutano la polizia con i ricordi di Brad, frammenti di vita che palesemente vengono fuori dalla mente del ragazzo, dalla sua acquisita nuova percezione delle cose (il tempo rallenta fino a diventare immobile), spesso incomprensibile proprio perchè unica. My Son, My Son, What Have Ye Done è anche lei a suo modo un' opera unica, sfuggevole ma che sa trascinarti al suo interno, affascinarti e coinvolgerti in maniera inconsapevole come nell' osservare una lattina che rotola. Suggestioni, volti (grandissima Grace Zabriskie) ed elementi tipici del cinema di Lynch (qui in veste di produttore), dalle quali Herzog fa emergere un personaggio fuori da qualsiasi classificazione, figura potente ed enigmatica, avulso da qualsiasi legame con ciò che la società considera comune e ordinario. La musica infine, mai fuori posto o eccessiva, completa ogni quadro già di per se visivamente straordinari.
Dragon Trainer riabilita, almeno per chi scrive, l' immagine della Dreamworks Animation che dopo il successo di Shrek e Madagascar si è adagiata su un modo di fare film d'animazione sicuramente remunerativo da un punto di vista degli incassi, ma povero in quegli aspetti, storia e contenuti, particolarmente curati dai rivali della Pixar, per rimanere sul continente americano, o della Ghibli. Ed è bastato mettere da parte orchi e animali parlanti dalle espressioni fotocopiate, un umorismo tutt'altro che fine, spesso basato su di un citazionismo cinefilo diventato pian piano semplicemente fine a se stesso, per raggiungere un risultato davvero insperato. Nel film di Dean DeBlois e Chris Sanders si respirano atmosfere da leggende nordiche (ma anche quelle dei più classici giochi di ruolo da tavolo) tra pascoli e alte scogliere dove un villaggio vichingo combatte una lotta infinita contro i draghi che ciclicamente compiono razzie di bestiame. Un plot che si presenta fin da subito abbastanza chiaro e limpido ma che nasconde diverse sfumature che alzano il livello del film nel suo complesso: innanzi tutto, con lo scontro tra uomini e draghi si vuole parlare della guerra in senso generale, degli scontri che nascono tra culture diverse per paura o per l'incapacità (o la mancanza di volontà) di comprendere ciò che non si conosce. La maniere in cui la guerra porta il protagonista Hiccup e il drago Sdentato a perdere qualcosa di se e a colmare la mancanza diventando l'uno complementare all' altro, ma soprattutto l' impegno profuso dallo stesso ragazzo nel conoscere i secolari nemici piuttosto che combatterli, diventa subito a chiave di lettura di Dragon Trainer, un film che dimostra di avere un gran cuore (qualcosa che manca, spiace dirlo, nei film Dreamworks) che batte per portare un messaggio pacifista e di tolleranza piuttosto forte. Non bisogna tralasciare però l' aspetto tecnico perchè, se fanno tenerezza le animazioni “feline” della Furia Buia, si rimane sbalorditi e catturati dalle bellissime sequenze di volo e le battaglie, in particolar modo quella finale.
Kick-Ass è un film che riporta prepotentemente in auge il discorso "adattamento" e con esso i dubbi su quanto ci si possa allontanare dall' opera originale per ottenere del materiale adatto ad una trasposizione cinematografica, di quanto la libera interpretazione possa arricchire, impoverire o creare qualcosa di nuovo. Sotto quest' ottica Kick-Ass divide chi vi scrive tra il fondamentalismo fumettistico e quella voglia incontrollabile di gridare alla figata assoluta. Il tutto nasce dal personalissimo e profondo rispetto per l' opera da cui il film è tratto ma più in generale per i lavori di Mark Millar dove emerge con forza l' umanità del superumano, inserita in un contesto sempre molto vicino alla realtà in cui viviamo. In Kick-Ass queste tematiche vengono portate all' estremo (ma se ne trattano anche di altre, come il sentirsi inadeguati ad inserirsi in un contesto sociale e di conseguenza la necessità di essere qualcun' altro, perchè no, anche un eroe) ed in qualche modo Matthew Vaughn trova il modo di portarle sullo schermo in maniera molto convincente, soprattutto nella prima parte introduttiva dove conosciamo il protagonista, Dave Lizewski, classico nerd sfigato che da appassionato di fumetti decide di fare ciò che nessuno inspiegabilmente, almeno per lui, ha mai fatto prima: diventare un vigilante mascherato, con tutta le dolorose conseguenze e l' improvvisa popolarità che ne derivano quasi da subito. Ma i meriti del regista inglese non si esauriscono qui e se il film mantiene un ritmo sostenuto per tutte le due ore di durata, è durante le sequenze d'azione che esplode, travolgendoci con una combinazione perfetta di regia, montaggio e colonna sonora. Esemplari le entrate in scena di Big Daddy (un Nicolas Cage semplicemente perfetto) e della piccola e letale Hit-Girl, nei cui panni Chloe Moretz ci regala un' interpretazione da applausi scroscianti. Le perplessità, perchè di queste alla fine si tratta, nascono quando sull' altro piatto della bilancia mettiamo alcune scelte di adattamento in fase di sceneggiatura, riallacciandoci così a quanto scritto in apertura, che si allontanano in maniera decisa dal fumetto. Non mi riferisco certo alla svolta fracassona durante il combattimento finale che in un film del genere in fondo ci calza a pennello, ma allo stravolgere alcuni aspetti della storia (le origini di Big Daddy, ad esempio) rendendola decisamente meno impietosa rispetto a come Millar l' aveva pensata. C'è dietro una precisa scelta di alleggerire i toni rispetto al fumetto rendendo Kick-Ass un film di puro intrattenimento, o solo un modo per essere, al solito, accomodanti verso il pubblico pagante? Di certo non si tratta di mancanza di coraggio visto che il film si concede più di quanto si concedano altri film destinati al grande pubblico, tra le quali parentesi violente e brutalità perpetrate da una ragazzina dodicenne e sboccata in maniera irresistibile, giusto per fare un esempio. Ne risulta infine un giudizio diviso, una media tra l' essere riusciti a fare un film incredibilmente trascinante e un po' di amaro in bocca per aver preso le distanze dal fumetto proprio in quegli elementi a mio avviso intoccabili.
TITOLO ORIGINALE: DAMAGES

Pang Ho Cheung è sicuramente uno dei nomi più importanti e interessanti del cinema di Hong Kong eppure anche per i migliori è rischioso uscire con due film lo stesso anno soprattutto se uno di questi è una pellicola bella e importante come Dream Home. Il rischio più immediato è che l'altro film venga, con estremo pregiudizio, considerato un film minore, caso che non riguarda certo questo Love in a Puff. Pur essendo un film diametralmente opposto a Dream Home, condivide con quest' ultimo lo "sfondo" sul quale si svolge la storia narrata, una Hong Kong viva e reale che gioca un ruolo da "burattinaio" nelle vite dei protagonisti: se nel film con la bravissima Josie Ho si parlava della speculazione edilizia che ha portato il mercato immobiliare dell' ex colonia britannica ad essere alla portata di pochissimi, in Love in a Puff ritroviamo una città dove, nei primi mesi del 2009, si fa una lotta senza quartiere al fumo ed ai fumatori. E' in una delle tante "smoking areas" sparse per la metropoli che si incontrano i protagonisti di questa storia, pubblicitari, commessi, facchini e ragazzi delle consegne, per prendersi una pausa dai rispettivi lavori da dedicare al loro vizio e per raccontarsi storie di paura. In questi brevi momenti che si consumano in vicoli lontani dagli sguardi della gente, c'è anche il tempo per due sconosciuti di incontrarsi e di piacersi. Pang Ho Cheung si concede a suo modo alla commedia romantica non rinunciando a giocare con i generi come in "I Shoot, You Shoot" e "Men Suddenly in Black" (l' incipit/titoli di testa da film horror e le interviste su "fumo" e "amore" quasi da mockumentary), ma soprattutto raccontando il sentimento che nasce tra due persone senza il bisogno di smancerie, effusioni o dichiarazioni sdolcinate, ma riuscendo a rendere romantico anche il semplice andare a comprare insieme le sigarette. Il regista di Hong Kong parla insomma di amori che nascono e bruciano in fretta, il tempo di una fumata, e non è da tutti farlo con semplicità, delicatezza ed ironia ma soprattutto farlo così bene.
Los Angels non è Tokyo. Eppure anche senza quello scarto che si crea tra il singolo ed il resto della comunità a causa dell' ostacolo linguistico e culturale, è ugualmente possibile sentirsi soli e persi. Su questo presupposto Sofia Coppola racconta la storia di Johnny Marco, attore all' apice del successo e allo stesso tempo ancorato sul fondo di un baratro, una vita fatta di apparenza, di superficialità, ridotto ad una marionetta nelle mani di agenti, fotografi e truccatori, riconosciuto più come personaggio che come persona. Una routine fatta di feste, amanti occasionali e noia che si interrompe quando si ritrova gioco forza a dover badare alla figlia undicenne Cloe per un po' di tempo. Un' occasione per scoprire che il vuoto che lo circonda può essere colmato, solo per finirne nuovamente avvolto appena la ragazza lo lascia per andare in un campo estivo. Per questo suo ultimo film la giovane regista percorre una strada in salita fatta di sequenze lunghe, volutamente scollegate, solo apparentemente fini a se stesse, quasi sempre racchiuse in poche inquadrature, rischiando di essere snervante e ridondante nel raccontare la vita di un uomo ormai alla deriva. Ferma e coerente nelle sue scelte di forma, riesce a ritagliare in egual misura anche momenti solari e intimi come le buffonerie di padre e figlia nella piscina di un albergo o la complicità nella fuga dall' osceno glamour della televisione italiana. Pur non rinunciando ad una bella e ricercata colonna sonora, la Coppola sembra voler ripulire il suo film dal superfluo (a livello narrativo e visivo) puntando a metterne in risalto l' essenza se non proprio il cuore del suo progetto. Lo stesso percorso personale che segue anche il suo protagonista, nel lasciarsi alle spalle la superficialità di ciò che è materiale, di ciò che è apparenza, per recuperare pezzo dopo pezzo un po' di se stesso a partire da un semplice sorriso.
Il nuovo Karate Kid (remake? Reboot?) è facilmente, e senza indugio alcuno, iscrivibile fra quei film di cui non si sentiva sinceramente il bisogno, vuoi perchè l'originale del 1984 è un cult intramontabile o semplicemente perchè, questa palese mancanza di nuove idee nel cinema mainstream, sta passando dal livello "preoccupante" a quello "stancante". La sensazione si fa ancora più forte se siete tra quelli che hanno amato il film con protagonista Ralph Macchio, ai quali questa nuova incarnazione del Ragazzo Karate, interpretato da Jayden Smith, potrebbe risultare davvero superflua se non proprio inutile. Sensazione che trova poi effettiva conferma quando si realizza che qui di karate c'è solo il titolo perchè, quello che imparerà il giovane protagonista per difendersi dai bulli che l'hanno preso di mira, è un sano ed elegante kung fu. I motivi di una scelta così radicale sono oscuri ma se si volesse provare a fare delle ipotesi, quelle più credibili potrebbero essere la consapevolezza che il pubblico ormai si beve qualsiasi cosa per quanto paradossale possa essere, o il fatto che il karate sia fuori moda da tipo 20 anni. Ma vista la sempre più importanza e rilevanza internazionale della Cina di oggi, non sarebbe poi così improbabile pensare ad un tentativo di avvicinamento di Hollywood ad una delle industrie cinematografiche asiatiche più importanti. Dopo che alcuni registi e attori di spicco si sono fatti attirare dal luccichio del cinema Made Usa negli anni passati, sembra insomma che il vento sia cambiato: ecco infatti che la produzione del film migra in terra cinese e questo, permettetemi di dirlo, è uno dei due motivi che sollevano, anche se di poco, il giudizio sul film visto che le immagini del mestierante Harald Zwart, restituiscono almeno in parte le atmosfere di una terra tanto lontana quanto suggestiva e misteriosa. Il secondo motivo è anche quello che probabilmente ha permesso questa "integrazione" USA/Cina, e cioè Jackie Chan, che qui prende il posto che fu a suo tempo di Pat Morita. Senza nulla togliere al mitico Maestro Miyagi, Jackie Chan regge il film praticamente tutto sulle sue spalle con un interpretazione dimessa che, seppur inferiore a quelle viste in Shinjuku Incident e Little Big Soldier, si inserisce bene nel nuovo percorso della sua carriera che l'attore sta percorrendo, considerato che comincia a non avere più l'età per ruoli troppo movimentati. Il resto è preso pari pari dall' originale Karate Kid perciò nessuna sorpresa nello svolgersi della narrazione e tutto fila liscio e prevedibile fino alla fine. Un po' poco anche per una sufficienza stiracchiata.


Da lettore ormai ventennale di comics è una sorpresa ed un piacere trovare nelle librerie e nelle fumetterie una raccolta di saggi dedicati ad uno degli sceneggiatori tra i più importanti e interessanti della scena fumettistica statunitense ma non solo. Lui è Garth Ennis e dall 'irlanda è sbarcato negli USA tutt' altro che intenzionato a sottostare a quelle “regole” imposte dai colossi Marvel e DC, ma riuscendo a ritagliarsi il suo spazio portando le sue tematiche, le sue ossessioni e quel modo dissacrante di demolire sistematicamente la classica figura del supereroe. Ed è proprio nelle collane dedicate ad un pubblico maturo di Marvel e DC (ma è bene ricordare anche i suoi lavori per Wildstorm, Top Cow e tante altre case minori) che Ennis ha dato vita ad alcune delle sue opere più famose, da Hellblazer a Preacher fino all' ultima e fino ad ora insuperata “resurrezione” del Punitore. Tra i tanti autori che hanno dato il loro contributo a questo interessante volume, troviamo anche il saggio (sicuramente quello nel quale emerge la formazione cinematografica nel modo in cui vengono esaminate le tavole) di Paolo Parachini dedicato a The Darkness (personaggio di culto, insieme a Witchbalde, della Top Cow) al quale Ennis si dedicò solo per il primo ciclo di storie riuscendo a influenzare in maniera inequivocabile le gestioni successive. Lettura consigliatissima a tutti i lettori di fumetti, sia chi non conosce bene l'autore o a chi vuole approfondire la conoscenza delle sue opere non sempre di facile reperibilità qui in Italia.
The Expendables di Sylvester Stallone è la Croce Rossa sulla quale sparare, bersaglio immobile e vittima sacrificale che da le spalle ad una certa, chiamiamola così, critica cinematografica accreditata che sembrava non aspettare altro che avere tra le mani un qualcosa di così facile da smontare e demolire a piacimento. E quel che resta da dire, dopo aver letto immani cazzate proferite da chi di cinema si occupa per lavoro è "contenti loro, contenti tutti". Perchè al di la di tutto quello che si può dire su Stallone il suo è un progetto che si è dimostrato fin da subito cristallino negli intenti, non ha promesso cose che non poteva mantenere puntando unicamente a dare al pubblico quello che voleva. The Expendables è quindi un film per tutti? Certamente no. La pellicola si rivolge infatti, senza per altro nasconderlo, ad un pubblico che è cresciuto con un certo tipo di cinema action degli anni '80 e con quegli attori che ne furono protagonisti, senza dimenticare però le nuove leve, quelli che hanno avuto il merito di traghettare il genere con successo nel nuovo millennio. Quale migliore idea allora se non quella di un team-up dei sogni ("definitivo" sarebbe eccessivo visto che mancano all' appello nomi importanti) tra queste due diverse generazioni d'attori e di farli recitare tutti insieme in un unico ed esplosivo film? Ed è bene rendere merito a Stallone, benchè lui e Statham siano i protagonisti di spicco, di essere riuscito a ritagliare un giusto spazio quasi a tutti, da Lundgren, a Li e Rourke (ancora una volta per lui un personaggio sofferente e marchiato a fuoco dalla vita) senza dimenticare piccolissimi ma preziosi cameo di Swarzenegger e Willis protagonisti tra l'altro di una sequenza ricca di inside jokes davvero riuscita. Il resto è da manuale e niente più: esplosioni, morti, pugni e sangue, intorno ai quali ruota una storia elementare, buoni contro cattivi, una bella da salvare, un bad guy da mandare sottoterra, amicizia, tradimenti e redenzione. Insomma, The Expendables si presenta al pubblico a carte scoperte, nel bene e nel male, ma regala tanti di quei momenti "HELL YEAH!!!" fin dai primi minuti, che da soli basterebbero a giustificarne la visione, perciò, aggrapparsi ai punti deboli di un film così, per altro ben evidenti, è una pratica fine a se stessa e da queste parti poco apprezzata. Il tutto in fondo si riduce ad un "andate al cinema e divertitevi, in caso contrario lasciate perdere".
