



Che si voglia intendere film, attori, interpretazioni, personaggi...fate un po' voi. In una parola:IMMENSI!
There Will Be Blood. "Scorrerà il sangue" potete starne certi, perché è di petrolio che stiamo parlando, l'anima nera dell' uomo. Dai primi del '900 ad oggi nulla è cambiato: il petrolio è l'ago della bilancia nei rapporti politico-economici mondiali. Per l'oro nero tanto sangue si è versato e tanto ancora se ne verserà. Si può dire che il mondo come lo conosciamo oggi (ma soprattutto l' America) è stato forgiato da uomini come Daniel Plainview che hanno cacciato il petrolio come segugi, che hanno scavato la terra arida e dura con le mani, che hanno versato sudore e si sono rotti le ossa al buio, da soli, nei pozzi.
TITOLO ORIGINALE: DEXTER
Da quanto lo aspettavo? Forse da quando ne ho sentito parlare la prima volta. Forse da quel Ladykillers che aveva fatto temere un pericoloso avvicinamento da parte di Ethan e Joel Coen ad un tipo di cinema mainstream che non gli appartiene. Ma sono disposto a considerare Ladykillers un piccolo passo falso assolutamente perdonabile perchè il loro ultimo lavoro, No Country For Old Men ripaga di tutto. I fratelli Coen adattano per lo schermo il romanzo di Cormac McCarthy e ci portano in quel Texas di cui già ci raccontarono nel loro film d'esordio Blood Simple. Una terra di confine desolata e violenta che diventa teatro di un' atroce storia di sangue. Durante una battuta di caccia Llewelyn Moss si imbatte casualmente in uno scambio di droga finito male. Cadaveri dappertutto ed un' invitante valigia piena di soldi che il ragazzo decide di portarsi a casa. Peccato che ci sia chi è disposto a tutto per avere indietro il denaro, anche assoldare il peggior killer psicopatico che ci sia in circolazione, Anton Chigurh. Il vecchio sceriffo Ed Tom Bell incappa suo malgrado tra le trame di questa brutta storia e pur mantenendosi a distanza cerchera di fare il possibile per aiutare Llewelyn ad uscirne sano e salvo.
Ah! E' dura la vita del broker in una grande città come Londra. Un lavoro che non lascia spazio per altro, che trasforma le tue priorità in un continuo "compra", "vendi", "soldi", "soldi" e ancora "soldi". Un mondo cinico e spietato fatto per uomini cinici e spietati. Max Skinner è uno di questi, anzi si può dire che è uno dei migliori e per questo nell' ambiente è parecchio odiato. Un giorno riceve la notizia che uno zio che non vedeva più da quasi dieci anni è morto. Non avendo lasciato nessun testamento, come parente più prossimo Max acquisisce la proprietà dello zio: uno splendido casale in Provenza con tanto di vigna, luogo dove da bambino Max ha passato delle splendide estati in compagnia dello zio, forse i momenti più felici della sua vita. Fatto sta che il primo pensiero di Max è rivolto a quello che si potrebbe guadagnare dalla vendita della proprietà. Recatosi in Francia per vedere in che stato si trovano il casale e la vigna, scopre che lo zio ha una figlia illegittima che potrebbe rovinare i suoi piani di vendita. Ma i ricordi di quelle estati che improvvisamente lo assalgono e una bella fanciulla del luogo di cui si innamora, mettono in discussione tutte le sue priorità, tutto quello che ha costruito nella sua vita fino ad allora.
Lo scafandro. Il corpo che diventa immobile prigione dello spirito e di una mente vigile. L'occhio è l'unica finestra che da all'esterno, che permette di guardare e di comunicare al mondo che c'è ancora vita all' interno del guscio. Tutto appare diversamente: i volti di donne e amici sembrano bellissimi, la luce che illumina le cose è calda e avvolgente.
L'idilliaco rapporto tra il CINEMA e Kitano si è rotto. Non è certo una mia deduzione ma un'ammissione chiara e senza mezzi termini che il regista giapponese fa al termine del suo ultimo lavoro (ma sarà corretto chiamarlo così?) Glory to the Filmmaker: Kitano è dal dottore per un check up e dalla scansione del suo cervello fatta con la Tac si vede una macchina da presa che va in frantumi. Se questo è vero allora che senso ha, dopo Takeshis' (quasi un folle "Bignami" del suo cinema), un film come questo? Si parla di "suicidio artistico" e non sarebbe la prima volta. Il geniale regista di pellicole come Violent Cop, A Scene at the Sea e Sonatine, frustrato dal non veder riconosciuto il suo talento drammatico dal pubblico giapponese che lo considera unicamente come "Beat Takeshi il comico", porta in sala Gettin' Any?, film dalla comicità grottesca e demenziale. Alla luce di questo, il terribile incidente in cui rimane coinvolto qualche tempo dopo, non sembra casuale ma segna comunque il momento della sua rinascita e della definitiva consacrazione come regista di fama mondiale. Oggi Kitano non sembra più così fragile da mettere addirittura a repentaglio la propria vita anzi, è pienamente cosciente di quello che fa mettendo insieme una pellicola composta da tanti progetti cinematografici abortiti, tanti tentativi di fare un nuovo film che spaziano dallo stra-abusato gangster movie al dramma sentimentale, dal film storico alla commedia nonsense. A differenza del precedente Takeshis', questa volta Kitano si fa in tre: c'è il Takeshi Kitano regista, l'attore Beat Takeshi e un pupazzo dalle sembianze dello stesso Kitano. Quest' ultimo diventa l'alter ego di Beat e il capo espiatorio dei fallimenti del Kitano regista. Prima della confessione finale di cui parlavo poco sopra, Kitano usa il pupazzo per nascondersi (all' inizio, la visita medica e la Tac la fa il fantoccio) e per nascondere quello che dopo la visione appare evidente: Kitano ci dice chiaramente che non ha più stimoli ne ispirazione per fare film. Glory to the Filmmaker è una pellicola oggettivamente brutta e indifendibile. Tra citazioni ed autocitazioni si avverte a sprazzi la presenza del vecchio Kitano in alcune gag veramente esilaranti (tre in tutto), ma niente di più. Lo stesso regista è consapevole di questo e alla fine decide di distruggere tutto e tutti con una bella meteora. Questo film è quasi una pugnalata al cuore che Kitano infligge a chi come me ha sempre amato il suo lavoro. E' una cosa di cui non mi capacito e nutro la flebile speranza che si tratti di un gigantesco scherzo che il Maestro ci sta tirando. Speranza alimentata da quell' ultima scena dopo titoli di coda: in un piccolo e sgangherato cinema di campagna, lo stesso Kitano proietta Kid Return, film che decretò il suo ritorno dopo l'incidente che lo vide coinvolto. Dobbiamo quindi aspettarci un "altro" grande ritorno? O la pellicola che brucia è segnale inequivocabile dell' esatto contrario? L'unica cosa certa è un terzo film (anche Kitano ha la sua trilogia) con il quale cercherà di dare il colpo di grazia alla sua carriera. Ed io rimango basito, non capisco e piango in silenzio.
"Mah!". Ripenso a Breakfast on Pluto di Neil Jordan e questo è tutto quello che mi viene da dire. Perplessità, certo. Perplessità e disappunto sono le parole giuste per descrivere ciò che mi ha lasciato questo film di cui tanto avevo sentito parlare. Ed è noto che più alte sono le aspettative più cocente è la delusione che ne può derivare.
Il film si apre con la macchina da presa che segue un uomo a bordo di una specie di monopattino a motore. Aspetto trasandato, cuffie sulle orecchie, sfreccia fra le strade semi deserte di una New York notturna sulle note di Simple Man di Crosby e Nash. Il suo nome è Charlie e fino a qualche anno prima la sua vita era diversa: laureato in odontoiatria, sposato con tre figlie. Il destino ha voluto che, il fatidico 11 settembre 2001, le donne della sua vita fossero su uno degli aerei che si schiantarono sulle torri. In quel giorno la sua vecchia vita finisce e ne comincia una nuova. Charlie si impone di non ricordare e non pensare a quello che è successo, facendo finta che le persone che amava non siano mai esistite. Nega il suo dolore così come i ricordi e si immerge in un mondo tutto suo, fatto di lavori di restauro, playstation e una collezione sterminata di dischi in vinile. Un giorno incontra Alan Johnson un suo ex compagno di università che stenta a riconoscere. Alan si è laureato anche lui in odontoiatria, lavora in uno studio e si barcamena tra una paziente un po' troppo "affezionata" e una famiglia che lo soffoca. L'incontro con Charlie rappresenta per lui una via di fuga, una valvola di sfogo tanto desiderata. Ma più frequenta Charlie, più cresce in lui la voglia di aiutare l'amico a liberarsi dell' enorme peso che da anni si porta dietro. E se Charlie non volesse essere liberato? Il film scritto e diretto da Mike Binder è uno di quelli che può essere considerato "minore". Non so in madrepatria, ma qui da noi ha avuto un trattamento di questo tipo: passaggio praticamente in sordina al cinema (non ricordo di averlo visto dalle mie parti) e approdo quasi diretto per l'home video. Eppure il film di Binder è una piacevole sorpresa. La pellicola poggia le basi sulla tragedia dell' 11 settembre 2001 senza voler utilizzare questo evento in maniera pedante e retorica ma anzi lasciandolo sullo sfondo (la data viene nominata una sola volta in tutto il film, le altre volte si fa riferimento ad un disastro aereo) e si concentra sui personaggi, sull'amicizia che li lega e su come si compensino a vicenda. Alan si sente in dovere di aiutare Charlie e involontariamente riceve dall'amico la spinta per cambiare quello che non va nella sua vita. Un film tutto sommato onesto che qualche volta scivola in maniera troppo telefonata nel drammatico, ma che offre le piacevoli interpretazioni di Don Cheadle e di un Adam Sandler che stupisce vedere in un ruolo drammatico. A rischio spoiler dico che il film finisce come è iniziato, ma questa volta sul monopattino a motore c'è Alan che torna dalla sua famiglia dalal quale si era allontanato sulle note di Love Reign O'er Me degli Who. Il cerchio si chiude.









Se escludiamo drammoni sentimentali e commedie adolescienziali (alcune tutt'altro che disprezzabili, per carità, ma anche un po' tutte uguali) il cinema giapponese moderno si eleva con pochi ma significativi registi che rientrano nella ristrettissima cerchia dei miei "preferiti". In pratica occupano il limitato numero di posti in questa categoria quei registi che sono riusciti a distinguersi con il loro personalissimo modo si fare cinema. Con Ritual, uscito nel 2000, Hideaki Anno non solo entra nel nuovo millennio sfondando la porta ma si aggiudica un posto a vita in questa cerchia insieme a Miike, Tsukamoto e Kitano. I protagonisti di questa storia non hanno nome ma potrebbero chiamarsi come gli attori che li interpretano visto che la scelta non sembra essere stata per nulla casuale. Lui è un regista (interpretato dal regista Shunji Iwai al quale manca veramente poco per entrare nella cerchia di cui parlavo prima) in crisi creativa, lontano dalla sua città in cerca di chissà quale ispirazione. Passeggiando per la ferrovia incontra una strana ragazza (Ayako Fujitani, figlia di Steven Segal e non a caso autrice del romanzo da cui Anno ha tratto la sceneggiatura del film), pesantemente truccata, ombrello rosso al fianco, sdraiata sui binari. Il regista affascinato da questa "figura", decide di seguirla e giorno dopo giorno si rende conto dello strano mondo in cui la ragazza è prigioniera, un mondo occupato da lei soltanto dove ogni giorno è uguale al precedente, dove il domani non arriva mai, è sempre "oggi". Ogni giorno la ragazza fa le stesse cose, vede gli stessi posti in un rituale che si ripete all'infinito.
TITOLO ORIGINALE: BATTLESTAR GALACTICA
Produttore: Universal

Avete presente Orgoglio e Pregiudizio? Il film di qualche anno fa, non il libro. Be, io decisi di vederlo un po' controvoglia, eppure il bel piano sequenza iniziale mi fece pensare "E che cacchio! Questo Joe Wright non scherza mica". E adesso mi ritrovo davanti al suo nuovo film, Espiazione, e la sensazione pare essere la stessa. Joe Wright si conferma un regista dalle grandi capacità. La messa in scena risulta pressochè perfetta, curata nei minimi dettagli a partire dalle inquadrature fino all' uso delle luci e dei colori. Non sfigura neanche quando si tratta di muovere la macchina da presa e a tale proposito non si può non citare il lungo piano sequenza durante i lraduno dell' esercito inglese sulla spiaggia. Forse è l'esempio più scontato, ma rende perfettamente l'idea delle pregevoli doti registiche di Wright. La sceneggiatura è tratta da un romanzo di Ian McEwan (che non ho letto, perciò mi asterrò da qualsiasi giudizio riguardante la bontà dell' adattamento) che divide la storia in tre blocchi: nel primo vediamo la tredicenne Briony Tallis accusare, probabilmente guidata dalla gelosia, di un crimine che non ha commesso Robbie, il giovane amante di sua sorella maggiore Cecilia. Briony non se ne rende conto immediatamente, ma il suo gesto cambierà radicalmente le vite di tutti loro. La seconda parte è ambientata nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Robbie per evitare anni di carcere si arruola nell'esercito e viene mandato a combattere in Francia. Cecilia ha abbandonato la famiglia ed diventata infermiera nella speranza di potersi ricongiungere con il suo amato una volta terminato il conflitto. Resasi conto del terribile errore commesso anni prima, anche Briony abbandona la famiglia e si iscrive alla scuola per infermiere. Nell' ultima parte Briony è ormai anziana, scrittrice affermata in procinto di pubblicare il suo ultimo romanzo "Espiazione", nel quale si confessa con la volontà di fare ammenda per i suoi errori e di dare pace alle persone che ha fatto soffrire. Devo ammettere di non trovarmi mai a mio agio con film come Espiazione. Il melodramma di per se è un genere che non mi "acchiappa" particolarmente. E anche in questo caso mi troverei a parlarne in maniera del tutto diversa se non fosse che, oltre alla bravura degli interpreti (su cui spicca una Keira Knightley bellissima senza i vestiti da pirata), la qualità della regia di Wright da al film quella marcia in più che mi ha decisamente convinto. Un po' come era successo con Orgoglio e Pregiudizio in pratica.

Tempi diversi sempre la solita storia: America contro terroristi. In fondo era questa la base su cui si basava la serie di cui parlerò oggi nella rubrica dei ricordi: G.I. JOE. A dire la verità l'origine dei "soldati di fanteria" (l.a sigla G.I. significa "galvanized iron", soldato di fanteria in gergo militare) risale ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, in alcune strisce a fumetti realizzate appositamente per l'esercito. Gli anni sono passati ma i G.I. JOE hanno sempre avuto un nemico da combattere. A vederlo oggi questo cartone, con il suo strabordante patriotismo e la morale spicciola che propinava, ci creerebbe non poche perplessità (a voler essere buoni). Ma da bambino io lo adoravo. Lo ammetto senza vergogna. E questo perché alla serie animata corrispondeva una serie di giocattoli, rappresentanti tutti i personaggi (oggi le chiamiamo action figures) e i veicoli della serie, veramente bellissimi. Ne avevo diversi ma purtroppo sono andati persi col tempo (un altro modo per dire "mia mamma me li ha probabilmente buttati") perciò mi capita spesso di guardare indietro a questa serie con nostalgia.
Ma che belli i film di arti marziali cinesi dove i combattimenti sono coreografie mozzafiato, dove i lottatori danzano leggiadri e pestano come fabbri. Fearless è uno di questi ma non è solo un film di combattimenti. C'è dietro anche una storia che fa da collante tra una lotta e la successiva, e non una storia qualsiasi. Una storia vera, quasi una leggenda, adeguatamente "pompata" ma pur sempre vera. La storia di HuoYoun Jia, figura realmente esistita tra la fine dell' 800 e i primi anni del 900, maestro del Wushu e fondatore della federazione sportiva Jinwu. Ripercorriamo la sua vita come un lungo flashback: il suo desiderio da bambino di imparare il Wushu nonostante la ferma decisione del padre a non insegnarglielo. Da adulto, la sua inarrestabile ascesa votata unicamente a diventare il più forte e i terribili fatti di sangue che ne hanno decretato la caduta. La rinascita anni più tardi, in una Cina ormai "invasa" dalle potenze occidentali e dal Giappone, ma dall' orgoglio nazionale mai sopito, incarnato proprio nella figura di Huo Youn Jia il guerriero imbattibile. Per mostrare ancora di più la loro superiorità sul popolo cinese, le potenze europee e il Giappone organizzano una sfida tra i loro quattro più forti combattenti e Huo Youn Jia. Ed è qui che il film si apre e si chiude. La regia è affidata a Ronnie Yu che io ricordo per il simpatico Codice 51 ma che scopro essere anche la mano dietro l'infelice progetto Freddy vs. Jason. Fearless si rifà ad un genere di film d'arti marziali molto popolare in Cina che Ronnie Yu "contamina" con il suo stile registico creando un mix abbastanza calibrato fra classico e moderno, per quanto si noti un abbondante utilizzo di effetti digitali specialmente nei combattimenti (vero cardine del film, diciamoci la verità). L'attore Jet Li è chiamato a ricoprire il ruolo di Huo Youn Jia e da lui non si può pretendendere una strepitosa interpretazione (anche perchè il film in se non la richiede) ma che faccia il suo dovere quando c'è da menare le mani, cosa che puntualmente avviene grazie alle sue note doti atletiche e alle curatissime coreografie che rendono ogni sfida una vera goduria. Riassumendo un po' le cose, il film non soffre di particolari mancanze in nessun reparto e risulta una visione piacevole e mai noiosa. Certo, se non amate il genere o siete dei puristi che aborrono le tecnologie digitali nei film d'arti marziali, il discorso cambia sensibilmente.
Dopo il film di Mungiu ecco un' altra importante pellicola Europea, premiata tra l'altro con l'Oscar per il Miglior Film Straniero, recuperata con un ingiustificabile ritardo. Le Vite degli Altri di Florian Henckel Von Donnersmarck ha in comune con il film di Mungiu, non soltanto la provenienza geografica, ma anche il raccontare con estrema lucidità un triste periodo storico del nostro recente passato. Germania, primi anni '80. Una Germania ancora divisa dal muro, Germania dell' Est in questo caso specifico. La vita delle persone è controllata costantemente, la Stasi è come un "Grande Fratello" che vigila su tutto, rendendo prive di significato libertà personali e artistiche. Gerd Wiesler lavora per la Stasi. Esperto in interrogatori, viene spesso impegnato come spia in operazioni che hanno come scopo tenere sotto controllo questo o quel personaggio sospettato di promuovere ideologie contrarie al regime. Georg Dreyman è uno di questi, famoso drammaturgo i cui testi spiccatamente neutrali gli hanno permesso di lavorare liberamente. Ma qualcuno nelle alte sfere crede che Dreyman nasconda qualcosa e decide di metterlo sotto osservazione (o ascolto) diretta. Non c'è ombra di dubbio che Le Vite degli Altri sia un gran bel film. La regia, asciutta ed essenziale, ben si sposa con una narrazione che non cede il passo a cadute di tono, rallentamenti di quasiasi genere, ma che conduce lo spettatore per i suoi 137 minuti con una storia che si bilancia egregiamente con i generi che tratta (thriller, spionaggio e una spruzzata di melodramma). Ma al di la di questo, tutto il film si regge sul personaggio di Wiesler interpetato in maniera superba da Ulrich Mühe (tristemente scomparso lo scorso luglio). Hauptmann Gerd Wiesler è un uomo fedele ai suoi principi e alle sue ideologie, pronto a difendere con ogni mezzo la DDR dai nemici dello Stato. Questo lo rende un uomo solo ma non per questo cattivo. Ascoltando la vita di Dreyman, artista diviso tra la voglia di lavorare e le costrizioni dovute al regime, Wiesler realizza il profondo vuoto che c'è nella sua vita. Amicizia o il calore nell'abbraccio della donna amata sono cose che non ha mai avuto ma che si scopre in dovere di difendere anche a costo di mettere in discussione tutto ciò in cui ha sempre creduto. Questo è il cuore è la forza del film. Il resto (sia le vicende di Dreyman che della sua compagna) è un contorno meno intenso ma funzionale alla narrazione. Il finale, a livello puramente emozionale, è da applausi.
L'abbiamo attesa tutti. Sia chi ha detestato la terza stagione, sia chi l'ha amata. Tutti eravamo in trepidante attesa per l'inizio della nuova serie di Lost, la quarta. Non si sa ancora se verranno trasmesse tutte e sedici le puntate o solo le otto che sono confermate al momento. In attesa di sviluppi, esaminiamo questa prima puntata che, lo dico subito, mi ha convinto. Certo, come molti avranno notato, l'incipit è un po' più debole rispetto a quelli della seconda e della terza serie, davvero "breathtaking". Debole ma neache più di tanto visto che, quella che ci viene mostrata, sarà con molta probabilità la nuova formula narrativa che seguirà la serie. Ultimo ma non ultimo, The Beginning of the End ci immerge sin dai primi minuti in quelle fantastiche atmosfere dense di mistero che hanno reso famosa questa serie. Non rimane che attendere pazientemente i prossimi episodi (che lascierò un po' accumulare in modo da guardarmene almeno quattro per volta) e sperare che queste belle premesse vengano mantenute.