Attesissimi e praticamente imminenti!!!
WATCHMEN
THE WRESTLER
GRAN TORINO
TITOLO ORIGINALE: DEAD SET
Le immagini uccidono, il suono porta alla salvezza. Eli, Eli, Lema Sabachthani? di Shinji Aoyama è un film che lavora sui sensi e fa lavorare i sensi spesso sovraccaricandoli di stimoli difficili da assimilare. Nel 2015 il mondo è vittima di una piaga terribile, un virus che colpisce il nervo ottico e porta le persone al suicidio. Denominato dai media come "Lemming syndrome", il virus sta decimando la popolazione mondiale. L'ultimo esponente dell' importante famiglia Miyagi vuole a tutti costi salvare la giovane nipote Hana affetta dalla Lemming Syndrome e unica erede del nonno. Accompagnato da un detective privato cercheranno due musicisti "noise" che secondo alcuni studi effettuati da eminenti scienziati, riescono a rallentare gli effetti del virus attraverso la loro musica. Si esce storditi dalla visione di Eli Eli Lema Sabachthani? eppure quello di Aoyama è un progetto ambizioso che affascina almeno tanto quanto lascia interdetti. Questa divergenza di giudizio, a mio avviso fortemente voluta dall' autore, rende il film accessibile in maniera molto limitata e solo nel caso si sia consapevoli della "violenza" sonora la quale si verrà sottoposti. Perché se nel contesto narrativo le immagini, per quanto belle esse siano, portano inevitabilmente alla morte, i suoni rappresentano invece un ancora di salvezza. Aoyama fa si che per lo spettatore l'effetto sia esattamente opposto: impossibile infatti non rimanere incantati dalle immagini del film, campi lunghi su paesaggi meravigliosi, una messa in scena minimalista che predilige lunghi silenzi e i personaggi quasi immobili nel quadro. Il suono irrompe assordante ( e qui si intende la musica "noise" suonata dai protagonisti campionando i più svariati rumori registrati), in maniera prolungata, quasi volesse insinuarsi nelle immagini e sovrapporsi a esse. Ed ecco colonne di altoparlanti stagliarsi sul verde di un prato mentre un sempre grande Tadanobu Asano si esibisce per una giovane ragazza bendata cercando di salvarla. Ma veramente basta la musica per salvare l' umanità dall' autodistruzione? Ed è qui che entra, con passo leggero, una critica alla società giapponese, Paese con un altissimo tasso di suicidi dove forse il virus è solo una scusa per nascondere malesseri più radicati per i quali non ci sono fantomatiche cure. Eppure, anche qui, niente di così incisivo da far sparire il dubbio che quell' insistenza nel proporre la musica noise (che, per carità, sono certo che avrà i suoi ammiratori) si riduca ad un compiaciuto espediente per mettere in bella mostra le esecuzioni live del musicista Masaya Nakahara e dello stesso Asano. Un dubbio che, purtroppo, non permette di essere tanto generosi nel giudicare il film.
Com' è possibile che un giovane proveniente dal nulla partecipi alla trasmissione "Chi vuol essere Milionario?"?. Com'è possibile che chi non ha ricevuto la minima educazione si trovi ad un passo dal portarsi a casa la massima cifra messa in palio? Questo si chiedono le persone che stanno vivendo questo sogno con lui. Questo si chiede il conduttore del programma che credendolo un imbroglione lo fa arrestare. Ed è sotto il duro interrogatorio della polizia che Jamal spiega come il destino abbia voluto che le domande e le relative risposte fossero collegate ad eventi cruciali della sua vita.
Nato a fine '800 e morto nei primi anni '70, Ip Man è stato uno dei più importanti esponenti del Wing Chun Kung Fu nonché maestro del grande Bruce Lee. Il film di Wilson Yip si propone essenzialmente come un film di arti marziali ma anche come un biopic del Gran Maestro focalizzato nel periodo che va dagli anni trenta alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In quegli anni il Fushan era, non solo un florido centro economicamente sviluppato, ma anche il luogo d' incontro e crescita per le varie discipline di arti marziali. La Via dei Dojo era la piazza dove si potevano trovare le varie scuole, tutte tranne quella del Maestro Ip, contrario ad avere allievi, che viveva in una grande casa con la sua famiglia. Tutto cambia dopo l'invasione giapponese: il Paese cade in una profonda crisi economica che non può che coinvolgere anche Fushan e i suoi abitanti. Anche il Maestro Ip è costretto ad abbandonare la sua casa e a trovare un lavoro per sfamare la sua famiglia. Il momento del riscatto arriva quando un generale giapponese decide di mettere alla prova le arti marziali giapponesi contro quelle cinesi, sfida alla quale il Maestro Ip è costretto da tragici eventi ad accettare. Quella che Wilson Yip mette in scena non è solo una guerra tra due popoli per una supremazia puramente politica. La lotta più forte e più evidente è quella per la supremazia culturale: i giapponesi vogliono schiacciare i cinesi, vogliono annichilirli la dove sono più forti, in quelle arti marziali che hanno radici profonde nella loro storia, solo così la sottomissione sarà completa. Si può rimproverare a Yip una rappresentazione di parte della storia, che vede i giapponesi dipinti unicamente come brutti e cattivi invasori, mentre il popolo cinese unito, orgoglioso e pronto alla lotta. La cosa non stupisce se si pensa che la ferita tra i due popoli è aperta e difficilmente rimarginabile. Nonostante questo piccolo, e se vogliamo anche piuttosto ignorabile difetto, Ip Man è un gran film di arti marziali e il merito va sicuramente alle coreografie di Sammo Hung e alla grande abilità del veterano Donnie Yen nel ruolo del Maestro Ip. Ma delle belle coreografie e degli attori esperti a cosa servirebbero se non fossero supportati da una regia all' altezza? Wilson Yip sa come rispondere a questa domanda ma soprattuto sa come girare sequenze di combattimento che valorizzino l'apporto tecnico di Hung e Yen, ed infatti la macchina da presa non perde un solo movimento o un 'acrobazia (nelle quali si nota l'utilizzo evidente ma non invadente di cavi) durante i combattimenti. Se a questo aggiungiamo una bella ed elegante ricostruzione storica (soprattuto nella prima parte) e la presenza, seppur in un ruolo minore, del grandissimo Simon Yam, abbiamo un film che soddisfa sotto tutti i punti di vista.
Si è fatto attendere tanto, troppo. Nessuno in sei stagioni è mai riuscito a fermarlo, ma contro lo sciopero degli sceneg- giatori non c'è stato nulla da fare. E dopo il leggero antipasto di Redemption è arrivato il piatto di portata. La settima stagione è finalmente tra noi con diverse novità, un grande ritorno e parecchie conferme. Dopo otto puntate viste, appare chiaro che la trama segue percorsi ben collaudati nelle precedenti stagioni: complotti nazionali e internazionali (legati indissolubilmente agli avvenimenti del su citato film tv Redemption) e tanta azione "alla Jack Bauer" sono ormai marchi di fabbrica della serie. Rimango però in attesa di quel guizzo che dia a questa stagione "quel qualcosa in più". Non che i bei momenti siano mancati, ma noi fan siamo sempre molto esigenti.
E va bé, qui c'è poco da fare. Si parla di una delle serie più amate/ odiate e più discusse di sempre. Io personal- mente la amo profonda- mente e da quando la fine della serie è stata decisa a tavolino si aspetta con trepidazione la nuova stagione con il pensiero fisso che la conclusione definitiva si avvicina a passi da gigante. Ma focalizziamoci sul presente: quattro episodi visti in un' unica soluzione (impossibile ed impensabile per me vederne uno a settimana!) e le sensazioni di trovarci di fronte ad una grandissima stagione sono già in positivo. I viaggi nel tempo sono la vera novità e Daniel Faraday entra di diritto tra i miei personaggi preferiti insieme a Locke, Ben e Desmond.
Damages ha avuto il grande merito di dare al legal/thriller una nuova e vincente dimensione seriale. Gli sceneg- giatori sono riusciti a non inciampare nell' aggrovigliatissima matassa che hanno imbastito senza mai perdere di vista il bandolo per sbrogliarla. La seria arriva alla seconda stagione e mantiene inalterato lo schema narrativo che si muove avanti e indietro di sei mesi attraverso flashback e flashforward. Oltre alla grandissima Glenn Close si aggiungono al cast anche William Hurt e Marcia Gay Harden. L' inizio più che convincente.
Lo so che è un po' tardi per far entrare Life nel "Ad un primo sguardo" visto che siamo arrivati già a metà della seconda stagione. Però ci tengo a ribadire ancora una volta quanto apprezzo questa serie fino ad arrivare a considerarla una delle migliori degli ultimi anni (e non si esagera). Certo, non c'è azione alla 24, ne misteri alla Lost o piani geniali alla Prison Break, ma la sottotrama principale è avvincente, gli episodi auto conclusivi sono ben scritti, i personaggi sono magnifici (Charlie Crews rocks!!!) e, ultimo ma non ultimo, Life è una serie piena, e quando dico piena intendo stracolma, di belle figliole. Uno dei tantissimi buoni motivi per cominciare a seguirla.
Ogni episodio di Pushing Daisies è un piccolo miracolo, il che mi porta ad amare incondizio- natamente questa serie, bellissima quanto sfortunata. Il network ABC che la trasmetteva l' ha cancellata senza concedergli una degna conclusione ed ecco perché ho trovato difficile iniziare la visione dei pochi episodi della seconda stagione che, alla fine dei conti, sono anche gli ultimi. Però alla fine ho ceduto e, che posso dire? Sono bellissimi, colorati, ironici, divertenti...e questo non fa che rendermi ancora più triste e amareggiato.
Ron Howard è uno di quei registi che lo si ama o lo si odia a fasi alterne. Per esempio, se si parla oggi de Il Codice Da Vinci ancora vengo colto da profonda amarezza, e se ripenso ad Audrey Tautou che prova a camminare sull' acqua in una delle ultime sequenze del film, mi verrebbe voglia di prendere il buon Ron e strappargli gli ultimi capelli che ha sulla testa. Per fortuna il regista americano dimostra di trovarsi più a suo agio nel portare sul grande schermo la pièce teatrale di Peter Morgan piuttosto che il fin troppo sopravvalutato romanzo di Dan Brown. Il materiale di partenza qui è molto importante perché va a toccare argomenti non nuovi per il cinema (Tutti Gli Uomini del Presidente), una delle pagine più nere della recente storia politica americana, quello scandalo Watergate che travolse l'allora presidente Nixon costringendolo, primo e fino ad oggi unico caso, alle dimissioni. Una macchia indelebile resa ancora più grande ed evidente dalla totale mancanza di un giusto processo a Nixon per gli evidenti illeciti commessi. Lo scopo ultimo delle famose interviste organizzate dallo showman inglese David Frost e dal suo staff, era quello di dare a Nixon quel giusto processo al quale era scampato e portarlo ad una ammissione di colpevolezza o a delle pubbliche scuse che il popolo americano si meritava. La prima piacevole sorpresa di questo Frost/Nixon sono sicuramente i due personaggi principali interpretati in maniera egregia da due ottimi attori, rispettivamente Michael Sheen e Frank Langella. Ed è proprio il secondo a stupire perché a dispetto dell' affondo giustizialista che il soggetto originale faceva presumere, ci troviamo a conti fatti con un ritratto molto umano di un Presidente che ha completamente travisato i concetti di giustizia e responsabilità che il suo mandato comportava. La seconda sorpresa sta nel modo in cui Ron Howard imbastisce lo "scontro" tra i due, verbale certo, ma anche abbastanza fisico (il modo in cui si muovono, si siedono o le posizioni che assumono, d' attacco e difesa, nei confronti dell' avversario) da non far stonare il continuo uso di terminologia riconducibile alla boxe: tenere a distanza, mettere all' angolo, gettare la spugna, se non fosse che son le parole a colpire sembrerebbe di assistere ad un incontro di pugilato. Con la sua regia Howard sta addosso ai due sfidanti, muovendosi prima sull' uno poi sull'altro, seguendo lo scambio di domande e risposte che, colpo su colpo, determinano chi si aggiudica i round e alla fine l'incontro. Un match che il regista americano e Peter Morgan (che ha curato anche la sceneggiatura) si portano a casa con grande merito.
Dove finiscono i sadici giochi di Funny Games iniziano i giochi di potere de La Pianista. Dove dei perfetti sconosciuti usavano violenza psicologica e fisica su di una ignara famiglia, qui i rapporti che legano vittima e carnefice sono più comuni e ordinari, come quello di una madre con la figlia, di un insegnante con i suoi allievi, di una donna con il suo amante. Haneke esplora senza esitazione questi legami cominciando dalla protagonista e da sua madre.
Tredici nomination agli Oscar possono gravare come un macigno su di un film. Possono creare delle aspettative nel pubblico e poi tradirle, soprattutto per un film come Il Curioso Caso Di Benjamin Button , con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, fatto senza ombra di dubbio alcuna a misura d'Oscar, vuoi per quella sceneggiatura scritta da Eric Roth (già autore di Forrest Gump), vuoi per i suoi due grandi interpreti come Brad Pitt o Cate Blanchett (ma sarebbe giusto citare anche Tilda Swinton), vuoi anche per l'enorme lavoro fatto tra effetti speciali e trucco. Da estimatore di David Fincher non posso che ammettere quanto la sua presenza registica, nei film precedenti sicuramente più marcata, qui sia quasi "trasparente" ma sarebbe un errore considerarlo per questo un film inferiore. Questo suo ultimo lavoro richiede allo spettatore un particolare coinvolgimento per aggrapparsi alla storia di una vita così particolare che assume quasi subito i contorni di una favola. Eppure, nonostante la magia che circonda la "curiosa" esistenza di Benjamin Button, il contesto storico così reale nel quale è ambientata la storia, porta ad affrontare la visione con i piedi ben piantati per terra. New Orleans oggi. Una vecchia donna morente chiede alla figlia di leggerle un vecchio diario mentre i notiziari mettono in allerta per l'imminente uragano Katrina. Le pagine del diario contengono le memorie di un uomo chiamato Benjamin Button, la cui vita inizia alla fine delle Prima Guerra Mondiale. Benjamin Button è infatti figlio dell' America post Grande Guerra, figlio di quei padri che piangevano la morte dei figli caduti sui campi di battaglia, figlio di un noto artigiano orologiaio di New Orleans che costruì un imponente orologio per la stazione ferroviaria della città. Per volontà del suo costruttore le lancette dell'orologio procedevano all' indietro nella speranza di ingannare il tempo e riportare a casa tutti i soldati morti in guerra. Anche la vita di Benjamin procede come le lancette di quell' orologio, al contrario, nasce vecchio per ringiovanire con il passare degli anni, figlio purtroppo di un padre scriteriato, porprietario di una fabrica di bottoni (e da qui il cognome) che, non accettandone la diversità, lo abbandona. Grazie alle amorevoli cure di una giovane badante di colore, Benjamin sopravvive e da diverso si integra nel mondo, diventando testimone di quasi un secolo di storia attraverso il suo punto di vista unico, fortunato e allo stesso tempo maledetto nel vedere le persone intorno a lui invecchiare mentre il suo corpo acquista anno dopo anno nuovo vigore. Anche l'amore, quello vero, non può essere vissuto appieno ma assume i connotati di un fugace ma intenso incontro, nel punto e nel momento in cui due vite che procedono in direzioni diametralmente opposte si incrociano. Ne Il Curioso Caso di Benjamin Button la "fine", concetto ribadito spesso, assume un significato relativo e non è il capolinea di qualcosa ma un nuovo inizio: una madre muore per dare alla luce suo figlio. Un neonato dato per spacciato vivrà la vita più straordinaria di tutte. Il vecchio orologio ormai dismesso continuerà il suo lavoro a ritroso mentre infuria la devastazione dell' uragano. Tutto si rinnova in un modo o in un altro, un messaggio di speranza da non sottovalutare.
Nong Pra-du è un piccolo villaggio nella campagna tailandese. Nel tempio di questo villaggio è custodita la statua del Budda Ong Bak, che secondo gli abitanti, protegge il luogo dalla malasorte. Proprio prima della festa in onore del Budda, la testa della statua viene trafugata da alcuni cacciatori di tesori. La popolazione cade nella disperazione, condizione accentuata dalla terribile siccità che sta lentamente asciugando i pozzi del villaggio. L'unica cosa da fare è andare a recuperare la testa in città e l'unico in grado di poter assolvere questo compito è il giovane Ting esperto di Muai Thai. Giunto in città si unisce ad un giovane imbroglione, anche lui originario di Nong Pra-du, e finirà coinvolto in un giro di combattimenti clandestini e nel mirino di un mercante di tesori rubati, senza scrupoli. Ong Bak di Prachya Pinkaew è sicuramente uno dei massimi esponenti del cinema action tailandese, un cinema che si propone con orgoglio nel mostrare combattimenti eseguiti senza controfigure, senza intervento di effetti speciali ne attori legati ai cavi. Tutto quello che si vede nel film è frutto delle straordinarie doti atletiche dei protagonisti e , in questo caso specifico, della super star Tony Jaa, che compensa la sua totale mancanza di attitudine alla recitazione, con tutta la sua esperienza di campione di Muai Thai. La storia, veramente superflua tanto è lineare e scontata, si muove su binari sicuri e risaputi che conducono da una sequenza spettacolare ad un' altra, rendendo tutto il resto un puro e semplice contorno all' azione. La regia di Pinkaew non brilla particolarmente limitandosi a seguire con estrema precisione gli scontri e utilizzando (forse anche abusando) di ralenty e replay da diverse angolazioni per le sequenze più spettacolari. Si parla di spettacolo senza esagerare, basta vedere quello che Tony Jaa è in grado di fare, l' agilità con la quale si muove mentre esegue salti e tutti i movimenti di gomiti e ginocchia tipici del Muai Thai. Lungi da me definire Ong bak un bel film ma sarebbe anche ingiusto infierire su di una pellicola il cui lato puramente "ludico" riesce a mettere in ombra gli evidenti difetti.
All' inizio di Kontroll di Nimrod Antal veniamo accolti da un' amico del regista, probabilmente impiegato nella società che gestisce il trasporto metropolitano di Budapest, che leggendo un cominicato ci tiene a precisare che il film che andremo da li a poco a vedere, non vuole in alcun modo rappresentare la realtà della metropolitana cittadina, ne in qualche modo eprimere giudizi sui controllori che ci lavorano, ma dare invece a tutto l'insieme un significato metaforico. Precisazione forse non necessaria, visto che la pellicola ci fa sprofondare (o discendere) in un mondo sotteraneo, un non-luogo dove, come in un simbolico Purgatorio le anime cercano la loro strada: l'ascensione verso la "luce" (la scala mobile che conduce in superfice) o il totale oblio (l' uomo incapucciato che spinge le persone sotto il treno). Kontroll inizia proprio con una discesa. Una ragazza, visivilmente ubriaca, arriva con la scale mobili in una stazione della metropolitana solo per finire pochi secondo dopo sutto la motrice del treno. Settimo caso di "suicidio" in pochi giorni, troppi perchè la società dei trasporti non prenda provvedimenti ed imponga alle diverse squadre di controllori una maggiore atenzione nei controlli alle stazioni. Tra queste squadre c'è anche quella di Bulcsù, uomo dal passato misterioso che passa 24 ore su 24 nella metro senza mai trovare il coraggio di tornare in superficie. Questa è la gente che popola il labirintico snodarsi di un' infinità di tunnel e le tante stazioni illuminate dai freddi neon: ci sono i passeggeri, la gente comune, i teppisti, i papponi, gli anziani, gli uomini d'affari. Dall' altra parte ci sono i controllori, alcuni in divisa come dei veri e propri squardoni, altri, come il gruppo di Bulcsù, un gruppo male assortito di personaggi bizzarri. Loro sono la legge li sotto e anche l'unico contatto umano in quella "società" aggressiva e indifferente che anima il sottosuolo. Nimrod Antal, passato da pubblicitario, ha talento bisogna ammetterlo. Kontroll è un film visivamente affascinante, con un ricercato uso del montaggio, della fotografia e una colonna sonora coinvolgente. Il regista Ungherese immerge il suo film in un atmosfera sospesa tra il sogno e la realtà con continui richiami simbolici, tanto da rendere quasi superfluo il cercare di sviluppare una sorta di sottotrama thriller al suo interno, che porta solo ad una generale confusione e ad un minutaggio che poteva essere anche inferiore. Forse Antal, a furia di seguire metafore su metafore ha imboccato il tunnel (giusto per rimanere in tema) sbagliato ed è un peccato perchè una maggiore sicurezza avrebbe reso Kontroll un vero gioiellino.
Dopo Sukiyaki Western Django di Takashi Miike, il cinema asiatico torna ad omaggiare il western italiano questa volta ad opera di un regista coreano. Si parla spesso in varie sedi, di come il cinema coreano stia affrontando un periodo calante (definiamolo così) rispetto almeno ad un paio d'anni fa quando dal paese asiatico arrivavano fior fiore di filmoni ad un ritmo anche abbastanza sostenuto. Poi ti capita sotto mano l' ultima fatica di Kim Ji-woon, The Good The Bad and The Weird, blockbusterone della stagione cinematografica coreana del 2008, e ti chiedi se sia davvero il caso di parlare di crisi. Certo, il film è ben lontano dall' essere perfetto ma, ad avercene pellicole così anche una volta all' anno. La storia prende piede nel 1930 in Manciuria e ruota tutta intorno ad una misteriosa mappa bramata da più parti: c'è l'esercito indipendentista coreano che assolda Park Do-woon (Il Buono) promettendogli come ricompensa la taglia sulla testa del criminale Park Chang-yi (Il Cattivo) anche lui impegnato a recuperare la mappa per conto dei giapponesi. Nessuno però ha fatto i conti con il bislacco Yoon Tae-goo (The Weird) che si trova sul treno, dove la mappa viene trasportata, per compiere una rapina. Dei tre, è proprio Yoon Tae-goo a spuntarla, recupera la mappa e convinto che indichi il punto preciso dove trovare un incredibile tesoro, decide di mettersi alla sua ricerca tirandosi dietro le "attenzioni" di Park Do-woon, Park Chang-yi e dell' esercito giapponese. L' opera di Sergio Leone, The Good The Bad and The Ugly (Il Buono, il Brutto e il Cattivo) fortunatamente rimane un sentito omaggio, la cui forte presenza (ma da un film così importante non ci si poteva aspettare di meno) non mette in ombra la forte personalità registica di Kim Ji-woon ed il suo stile con il quale abbiamo imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo negli ultimi anni. La compostezza e l'eleganza formale che avevano contraddistinto i suoi lavori precedenti (Tale of Two Sisters e A Bittersweet Life), qui lasciano spazio ad un approccio più "grezzo" che ben si sposa con le location polverose che fanno da sfondo alle vicende. Nonostante qualche difetto di scrittura (non così grave poi), Kim Ji-woon mostra tutto quel che sa fare in sede di regia e le lunghissime sequenze d'azione sono l'ennesima conferma del talento di questo straordinario regista. Basti citare tutta la sparatoria sul treno o lo scontro al Mercato Fantasma. Se non fosse per qualche lungaggine di troppo nella seconda parte, che spezza l'ottimo ritmo creato in precedenza, ci troveremo davanti ad un film veramente enorme che può contare su dei grandissimi attori, tra i quali spunta Song Kang-ho al quale non si può non volere bene. Difficilmente "lo strano" sarebbe potuto essere interpretato da qualcun' altro.
Mike Enslin è uno scrittore. Da tempo non scrive più romanzi ma si dedica alle recensioni di particolari posti turistici legati a leggende di fantasmi e apparizioni, che raccoglie poi in libri di scarso interesse. Mike non crede in queste cose e nel suo "esplorare" non ha mai riscontrato veridicità nelle storie raccontate, niente che si discosti dalla semplice suggestione. Gli alberghi infestati sono il suo più recente interesse ma nessuna esperienza degna di nota lo colpisce almeno fino a quando viene a conoscenza dell' Hotel Dolphin a New York e della famigerata stanza 1408, al cui interno sono morte in circostanze misteriose più di cinquanta persona da quando l' albergo è stato inaugurato. Andando contro le insistenze del direttore, che appare fin troppo conscio del pericolo che quella camera rappresenta, Mike riesce ad ottenere il permesso di trascorrerci una notte. Nonostante il suo scetticismo, lo scrittore si troverà ad affrontare qualcosa di tanto incomprensibile e terrificante da far vacillare la sua forte razionalità. Da sempre la produzione letteraria di Stephen King, tanto i romanzi quanto i racconti brevi, sono stati terreno fertile per svariate trasposizioni cinematografiche, sia per la qualità indiscutibile del materiale di partenza (almeno dal mio punto di vista), sia perché l'horror è da sempre un genere che fa molta presa sul pubblico. Certo, la qualità delle trasposizioni è tutt'altro che costante: ci sono capolavori come Shining e prodotti insulsi come la sua controparte televisiva. Ci sono gioiellini come Stand by Me e nefandezze come Tommyknocker, altro prodotto televisivo. The Mist, ultimo in ordine cronologico, rappresenta, non solo uno dei migliori horror degli ultimi anni, ma anche una ottima trasposizione e segue un trand positivo (ma magari è esagerato definirlo così) iniziato un anno prima proprio con 1408. Qualitativamente non siamo sugli stessi livelli, ma il film di Mikael Håfström si sa difendere bene, nonostante non spicchi certo per originalità, basandosi su alcuni elementi chiave della bibliografia di King: scrittore in crisi segnato dal senso di colpa o da trauma simile, il Male che si manifesta nel quotidiano ecc. Considerato che il film si concentra quasi esclusivamente su di un solo personaggio (interpretato dal bravo John Cusak) e che per l' 80% si svolge in una camera d'albergo, bisogna rendere merito a Håfström di aver saputo gestire con la sua regia lo spazio limitato, riuscendo a creare ottimi momenti di tensione, qualche spavento non telefonato e alcune sequenze veramente inquietanti (quella sul cornicione con la facciata dell' albergo senza finestre ad esempio). Anche se non rappresenterà mai un tassello fondamentale del genere, visto che la visione coinvolge completamente senza mai annoiare, non credo ci si possa proprio lamentare. L' horror odierno ha visto momenti ben peggiori.
TITOLO ORIGINALE: DR. HORRIBLE'S SING-ALONG BLOG
Produttore: Mutant Enemy Inc.
Produttore: Medusa
Produttore: 20th Century Fox
"I WANT TO BELIEVE". Chi conosce bene la serie tv X-Files si ricorderà perfettamente di questa frase che faceva capolino da un poster che l' agente Fox Mulder teneva appeso nel suo ufficio all' FBI. I WANT TO BELIEVE era anche il motto su cui lo stesso Mulder aveva fondato la sua ossessiva ricerca della verità, nella speranza di ritrovare sua sorella, rapita davanti ai suoi occhi quando lui era ancora piccolo. I WANT TO BELIEVE è il titolo del nuovo film di X-Files, che il suo creatore Chris Carter porta nei cinema a dieci anni dalla conclusione della serie. Dieci anni sono passati anche nelle vite di Fox Mulder e Dana Scully, ormai non più agenti dell' FBI ma in qualche modo impossibilitati a lasciarsi il passato alle spalle. Lei lavora a tempo pieno come medico quando riceve una visita inaspettata da alcuni agenti dell' FBI che le chiedono di rintracciare Fox Mulder, il più adatto, considerati i suoi trascorsi con casi irrisolti aventi spesso a che fare con la sfera del paranormale, a verificare l'attendibilità di un veggente, ex sacerdote accusato di pedofilia, che il Bureau sta utilizzando per trovare un' agente scomparso. Mulder, da anni isolatosi dal resto del mondo, accetta con riluttanza di occuparsi del caso. L' iniziale, categorico rifiuto contrasta con l'ambiente in cui lo troviamo immerso, una stanza che sembra la ricostruzione del suo vecchio ufficio: schedari, le matite conficcate sul soffitto, una foto della sorella e, da dietro articoli di giornale appesi alle pareti, ancora quel vecchio poster con quella scritta bene in evidenza "I WANT TO BELIEVE". Mulder vuole credere in quel veggente nonostante il suo passato da pedofilo lo renda più un sospettato che un testimone. Credere è necessario per raggiungere la verità. La verità spesso deve essere supportata dalla Fede. Scully vede la sua Fede vacillare di fronte al rifiuto dell' organo direttivo dell' ospedale, di prestare le cure necessarie ad un bambino malato terminale. Se si vuole trovare subito un pregio a questo nuovo progetto targato X-Files è proprio il lavoro fatto sui personaggi. Il gap decennale permette a Carter di presentare i characters al quale il pubblico si è affezionato dietro angolazioni differenti, uniti da nuovi legami ma separati negli obiettivi ormai divenuti inconciliabili. La storia, così come i personaggi, è ricca di contrasti e pur non affondando nel paranormale o in argomenti extraterrestri (il che per molti potrebbe essere un difetto), riesce a trasmettere le atmosfere delle serie anche grazie ad un piccolo ma prezioso cameo. Il film regala qualche bel momento di regia (troppo pochi a dir la verità) ma la verità è che questo è un prodotto rivolto soprattutto ai fan, a chi la serie l'ha sempre amata. Tutti gli altri difficilmente riusciranno ad immergersi completamente nel film e ad apprezzarlo per quello che è.
Harvey Milk fu il primo uomo politico dichiaratamente omosessuale ad essere eletto per una carica pubblica. Milk riesce a riunire la comunità gay di San Francisco e a portare avanti la sua campagna, la sua lotta per la difesa dei diritti basilari di ogni essere umano, una lotta per la salvaguardia delle libertà personali, una battaglia a muso duro contro l'intolleranza, l'ignoranza bigotta e repressiva. Nel 1978, a neanche cinquant' anni, la sua vita viene bruscamente interrotta dalla follia di un ex Consigliere Comunale, Dan White, che lo uccide insieme all' allora Sindaco di San Francisco. Fortunatamente il suo pensiero, la sua forza, il Movimento da lui innescato, non si spegne con la sua vita ma continua a vivere in coloro che sono stati in grado di raccogliere il suo messaggio.
Cominciamo dalla fine: la realtà, improvvisamente, fa capolino laddove l' animazione fino a quel momento l'aveva sostituita. Immagini di repertorio che strattonano con forza lo spettatore in maniera molto più decisa di quanto abbia fatto il resto del film precedentemente, immagini di morte che non risparmiano nessuno, uomini, donne, bambini. Un cambio di registro inaspettato ma che porta forse la chiara volontà del regista Ari Folman di dire "Ehi! Ecco di cosa sto parlando! Ecco che cosa abbiamo dimenticato" La strage di Shabra e Shatila episodio terribile che il regista e quelli che un tempo erano i suoi commilitoni faticano a collocare nella loro memoria, ma soprattutto faticano a collocare se stessi in quei tragici giorni. Il cinema diventa strumento per risvegliare la memoria, per rievocare eventi passati, distorti, cancellati. Ari Folman, partendo dal sogno ricorrente di un suo amico che si vede perseguitato da un branco di 26 cani che lui stesso uccise durante la guerra, esamina il suo stesso passato come soldato, intervistando i vecchi compagni d'armi e alcuni psicologi. Nei sogni si nascondono frammenti di memoria. I frammenti messi insieme compongono i ricordi, episodi che si collocano in momento storico preciso e raccontano della guerra in Libano, poi Beirut fino al genocidio perpetrato nei campi di Shabra e Shatila. Ari Folman sceglie l' animazione come forma espressiva, troppo spesso associata unicamente (ed erroneamente) a prodotti infantili ma in grado, come dimostrato anche dal recente e bellissimo Persepolis di Satrapi e Parannaud, di poter essere utilizzata per raccontare in maniera adulta pagine nere della nostra storia recente. Mentre in Persepolis assistiamo ad un' autobiografia della sua autrice, il regista israeliano utilizza il documentario per la ricostruzione dei suoi ricordi, intervallando interviste a frammenti onirici e flashback. Sono proprio questi ultimi ad essere maggiormente valorizzati dalla particolare tecnica d'animazione utilizzata, in grado di rendere ancora più inquietanti e angoscianti alcuni momenti determinanti (il sogno dei 26 cani o la "danza" del soldato mentre scarica in aria il suo fucile sullo sfondo di una gigantografia del presidente Gemayel Bashir). Ma al di la di questi aspetti puramente formali, Valzer con Bashir è un opera importante perché Folman dimostra attraverso la sua ricerca interiore, ma non solo, la necessità che uno Stato giovane come quello di Israele non dimentichi, che ponga le basi della propria memoria cominciando dall' atroce crimine di cui si è reso complice consapevole: rimanere a guardare mentre le falangi cristiano maronite compivano l' eccidio nei campi palestinesi non rende le loro mani meno sporche di sangue innocente. L' orrore può essere nascosto ma non cancellato.
Appaloosa è bello, c'è poco da dire. Ed esprimo il mio giudizio ancor prima di aver parlato del film perchè il secondo lungometraggio di Ed Harris, per qualche oscura ragione, è stato bistrattato dalla nostra distribuzione. Non riesco mai a capire perché piccole ma interessanti pellicole vengano spesso e volentieri ignorate, figuriamoci poi un film che vanta, non solo nel suo cast grandi nomi come lo stesso Harris, Viggo Mortensen o Jeremy Irons, ma anche un passaggio in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Che sia tutta colpa del genere di appartenenza? Io personalmente trovo i western molto affascinanti ma, chissà come mai, il genere è dato per spacciato da tanto tempo. Eppure regolarmente spunta fuori qualche pellicola a ricordare a tutti che il western non è affatto morto, non ultimo lo splendido L' Assassinio di Jesse James per Mano del Codardo Robert Ford. A differenza del film di Dominik però, Appaloosa è un western più classico anche se il plot riserva degli sviluppi davvero interessanti.